Se c’è una cosa su cui a Napoli non si deve scherzare, questa è la scaramanzia, credenza popolare che ormai da secoli è parte integrante del folklore della storica capitale del Sud. Quando però tutto ciò inciampa in un altro caposaldo della viscerale “napoletanità”, il gioco del calcio, inaspettatamente non è l’unione d’intenti quel che ne scaturisce…
Il football a Napoli ha, sin dagli albori, un unico comun denominatore: l’azzurro, colore che — pur se declinato nelle più diverse tonalità — abbiamo sempre ritrovato sul petto delle varie compagini cittadine.
Dai pionieri d’inizio ‘900 del Naples e dell’Internapoli, sino all’attuale società, la tinta dei Borbone ha stabilmente accompagnato le magie di Sívori, Maradona e Cavani, contraddistinguendo agli occhi del mondo l’infuocata passione calcistica proliferata negli anni ai piedi del Vesuvio.
Quando però tale passione cavalca l’entusiasmo e i sogni di gloria, o di contro si trasforma in delusione e sconforto, la tradizione rischia di lasciare il passo all’impeto del momento, sensato o non che sia. Ciò è ancor più vero in una realtà come quella napoletana, dove la commistione tra reale e irrazionale è più forte che altrove.
Yellow Power
La casacca azzurra, a Napoli, è praticamente un dogma. Solo nell’annata 2002-03 la società partenopea privò i tifosi del loro abito preferito, con un’effimera maglia palata “Argentina-style” sfoggiata in Serie B e mandata in naftalina ben prima della conclusione del torneo, alla luce della pioggia di critiche dagli spalti nonché degli stenti della squadra in campo.
Quando però si mette di mezzo la buona sorte, non c’è tradizione che tenga; è così che, in questo primo scorcio di 2014, i supporter del club campano si sono ritrovati sovente a tifare per undici uomini… vestiti di giallo!
È normale e facile da comprendere: la scaramanzia qui è fondamentale. Visto che abbiamo avuto buoni risultati con la maglia gialla stiamo continuando ad utilizzarla e lo faremo finché porterà fortuna…
— Rafa Benítez
Se tanti calciatori e addetti ai lavori, già da se ricorrono a oggetti e riti scaramantici prima di scendere in campo o perfino durante i match — dalle maniche asimmetriche di De Rossi, all’ormai leggendaria acqua benedetta del Trap —, non deve certo stupire se la filosofia del “non è vero, ma ci credo” è stata adesso abbracciata da un’intera formazione.
Da una parte, simpaticamente, possiamo vedere il tutto come la rivincita della terza divisa napoletana: una muta rimasta a lungo confinata al ruolo di comparsa, messa in ombra dalla dirompente novità della away camouflage che tanto fragore (e successo) aveva destato nei mesi recenti, ma che inversamente poco riscontro aveva avuto sul manto erboso.
La maglia mimetica? Dopo l’Arsenal non l’abbiamo più messa, per noi non fu una gara positiva. Ora usiamo la gialla che ci porta fortuna.
— Raúl Albiol
Si tratta dell’agognata ribalta per un colore che, a conti fatti, fa parte a pieno titolo della storia del club: dopo il canonico bianco, sono infatti il rosso e il giallo le tinte più frequenti per le divise da trasferta dei partenopei — guardacaso, la stessa dicotomia che ritroviamo nel gonfalone comunale.
Dall’altra, non possiamo dimenticare di essere in Italia, paese dove, senza pericolo di blasfemia, l’uniforme da calcio viene vista sotto un’aura di “sacralità” quasi intangibile.
Nel caso della third gialla del Napoli, pur non trovandoci in alcun modo di fronte a un cambio dell’identità cromatica del club, rimane il fatto che vedere i propri beniamini ripudiare la casacca azzurra, per meri motivi scaramantici, è un po’ un colpo al cuore.
Il passato che ritorna
Quel che lascia perplessi, nello specifico della situazione partenopea, è lo scoprire come tutto si ripete: non è infatti questa la prima volta che il club napoletano, facendosi traviare dall’inevitabile retrogusto folkloristico della sua terra, rinuncia alla divisa azzurra con la speranza di un salto di qualità a livello sportivo.
Per rispolverare questo peccato originale dobbiamo andare a ritroso sino alla metà degli anni sessanta, quando la formazione campana si barcamenava, tra alti e bassi, dalla A alla B.
Un riassetto societario portò alla presidenza Roberto Fiore il quale, oltre a traghettare il club dall’antica Associazione Calcio all’attuale Società Sportiva Calcio, nel corso della stagione 1964-1965 ripose nell’armadio la tradizionale casacca per promovere, al suo posto, la away di quell’annata, bianca con sbarra azzurra.
La squadra partenopea si trovava in cadetteria e, casualmente, proprio indossando tale muta mise a referto una serie di positive prove; da qui l’idea di utilizzarla stabilmente come prima scelta, in un campionato che si concluderà col trionfale ritorno in massima serie.
Secondo i racconti, l’imbeccata arrivò dalla Via Emilia, più precisamente dal Bologna scudettato del 1964, che con la sua più iconica seconda divisa (bianca con sbarra rossoblù) permise a Bulgarelli e Haller d’inanellare un buon numero di successi.
Da qui il tentativo — a conti fatti, riuscito — di trasportare all’ombra del Vesuvio gli influssi positivi di questa sbarra fortunata che, ironia della sorte, ritroviamo oggi protagonista al San Paolo a quasi cinquant’anni di distanza dalla sua antenata.
Tutto il mondo è paese
Tutto sommato, a Napoli non hanno scoperto nulla. Come accennato in precedenza, calcio e scaramanzia è un connubio difficilmente districabile, e che già nei decenni passati offrì il fianco all’inventiva del caso.
Restando tra i confini nazionali, due sono gli esempi che svettano su tutti, ed entrambi hanno come protagonista una maglietta bianca… Il più famoso — e ancora oggi in vita — è quello del Milan, che ormai stabilmente, in occasione di finali europee, scende in campo con una divisa prettamente linda.
La consuetudine affonda le sue radici al 22 maggio del 1963, quando la squadra del paròn Rocco battè il Benfica di Eusébio assicurandosi la sua prima Coppa dei Campioni. Altafini e compagni calcarono il prato di Wembley sfoggiando la seconda maglia bianca con bordature rossonere, un’idea che a partire dagli anni ottanta è stata poi ripresa in pianta stabile, scaramanticamente, ogni qual volta si presenta l’ultimo atto di un torneo continentale.
Toccò invece al Cagliari chiudere gli anni sessanta consegnando un’altra away all’olimpo delle maglie più famose della storia (o almeno, della Serie A). La squadra sarda compì nella stagione 1969-70 un’impresa rimasta nella storia del calcio nostrano, rompendo l’egemonia del Centro-Nord e portando per la prima volta lo scudetto nel Mezzogiorno d’Italia.
Non fu però la loro classica uniforme a timbrare questa rivalsa sarda, poiché a un certo punto dell’annata fu la divisa da trasferta bianca a salire alla ribalta, divenuta di colpo un prezioso talismano per le prestazioni dell’undici cagliaritano.
Indissolubilmente legata a quel trionfo, per i primi anni settanta questa away — caratterizzata dal profondo scollo chiuso da laccetti — soppiantò a lungo la canonica rossoblù, tanto da divenire la seconda pelle per eccellenza di rombo di tuono “Gigiriva”.
Voglio la maglia mia!
Tornando a Napoli, in fin dei conti non ci si poteva aspettare altro. La città è la patria della scaramanzia, un virus capace d’infettare in breve tempo anche chi arriva dai luoghi più distanti del pianeta, per convertirlo inesorabilmente agli usi e costumi partenopei.
La maglia gialla? Nel calcio funziona così, la scaramanzia regna sovrana. L’ho fatto anche io quando giocavo: volevo sempre un mio amico a seguire la partita perchè quando c’era lui, non perdevamo mai.
— Pino Taglialatela
Già ai tempi d’oro, l’argentino Maradona dava un bacio in fronte al massaggiatore Carmando prima del fischio d’inizio (un gesto poi ripreso da Paolo Cannavaro), mentre oggi il suo erede Higuaín fa tre saltelli prima di scendere in campo, si china a saggiare l’erba con la mano destra e compie il segno della croce.
Nell’enclave spagnola, Callejón preferisce baciare tutti i santini lungo le scale del San Paolo, a differenza di Reina che, la sera prima del match, fa il pieno di benzina e sorseggia un bicchiere di vino. Neanche il tecnico Benítez sfugge alla cabala; di lui, già ai tempi di Valencia erano famosi i suoi calzini portafortuna.
Tutte cose che i supporter napoletani guardano forse con distacco e un po’ di simpatia, gesti privati e personali che non vanno a cozzare con l’unico amore condiviso, la maglia azzurra. Diverso è il discorso se la scaramanzia finisce per soppiantare identità e tradizione: in questo caso, l’opinione dei tifosi è abbastanza eloquente.
Sto coi tifosi: il Napoli dovrebbe giocare sempre in azzurro, scartando peraltro quella militare… Sotto c’è l’aspetto scaramantico. Tutti siamo così, ma dovremmo limitare questo tipo di decisioni.
— Vincenzo Montefusco
La squadra di giallo vestita è stata capace, indubbiamente, di tirar fuori numeri inaspettati. La tinta del sole — e a Napoli non poteva esserci scelta più pregnante — viene percepita come un simbolo di energia, vivacità, crescita e cambiamento, capace di stimolare la razionalità e il cervello, aumentando attenzione, riflessi e concentrazione.
Tutti aspetti che in campo fanno la differenza… chiedere al Pipita Higuaín che, statistiche (e gol) alla mano, con questa maglia addosso diventa letteralmente incontenibile.
Tuttavia, questo non sembra importare molto alla tifoseria azzurra, che nelle ultime settimane ha riversato il suo quasi unilaterale malcontento nei social network, chiedendo a gran voce un passo indietro alla società e ai giocatori.
Il culmine della protesta si è raggiunto lo scorso 27 febbraio quando, in occasione della sfida di Europa League contro lo Swansea City, dagli spalti del San Paolo è stato mostrato uno striscione impossibile da travisare: voglio la maglia mia!
Ciò potra forse apparire come un paradosso vista la terra in cui si sta consumando questa contesa cromatica, ma a ben vedere si tratta, molto semplicemente, del più puro degli istinti calcistici: l’appartenenza a uno stemma, una casacca, un colore.
Per gran parte dei tifosi, soprattutto quelli più accesi e passionali, è nella maglia che risiedono in primis i valori portanti di una squadra. Rinunciarvi, equivale a rinnegare la propria storia passata e futura, la propria unicità dagli avversari… in definitiva, la propria essenza.
In fondo, i supporter partenopei non sembrano chiedere troppo: soltanto di rivedere in campo quella divisa azzurra che è parte indissolubile del calcio napoletano, com’è sempre stato dal 1926 a oggi. Se poi tornassero anche i pantaloncini bianchi del passato… ma sì, facciamo vedere che abbondiamo!
La forza dei napoletani sta in questo: nel loro carattere, nella loro tradizione, nelle loro radici.
— Marcello Mastroianni