Dal dopoguerra fino agli anni ’60 risulta quasi impossibile riuscire a censire gli stemmi della maggior parte delle associazioni calcistiche.
A parte le più blasonate, che compaiono spesso sui giornali, per tutte le altre si entra in un intricatissimo limbo dal quale molto spesso non se ne esce neppure facendo riferimento alla storiografia specifica di ogni club. Ogni città, ormai fin dagli anni ’20, ha la propria squadra di calcio e fino ad oggi sono ben 63 le squadre ad aver preso parte agli 83 campionati di Serie A a girone unico dal 1929-30, mentre più del doppio (141) sono quelle che hanno preso parte agli 83 campionati di Serie B (a differenza di quelli di A, non tutti ad unico girone). Fortunatamente a tenere traccia di tutte queste squadre fin dal 1960 c’è la popolare serie di album a figurine Calciatori Panini.
Agli inizi del 1960 Benito e Giuseppe Panini, che avevano fondato a Modena l’Agenzia Distribuzione Giornali Fratelli Panini, trovarono a Milano un lotto di vecchie figurine invendute delle edizioni milanesi Nannina. I fratelli lo acquistarono, prepararono delle bustine bianche con cornicette rosse contenenti due figurine ciascuna e le vendettero a 10 lire l’una.
Il successo fu enorme e inaspettato: le bustine vendute toccarono i 3 milioni. L’anno successivo i fratelli decisero di fare tutto con i loro mezzi, stampando le figurine e creando anche il primo album (con l’attaccante del Milan Nils Liedholm in copertina). Le vendite furono quintuplicate, e i milioni di bustine vendute furono 15. Era ufficialmente nata la collezione Calciatori.
La prima edizione con la serie B fu quella del 1963-64, con i giocatori delle squadre presentati a coppie (due per ogni figurina), mentre nel 1967-68 fecero la loro comparsa gli scudetti delle squadre di serie C, laminati in argento come agli altri di serie A e B.
Nel primo album gli stemmi, seppur riportati con una certa precisione negli elementi, sono spesso adattati ad una forma che risulta sempre uguale per ogni squadra. La prima edizione (quella “Nannina-Panini”, per intenderci) presenta quindi ogni stemma ovale riportato alla forma di un cerchio mentre nel secondo, quello del 1961-62, i loghi sono del tutto sostituiti da scudi “gotici” “partiti”, con i colori sociali nel lato sinistro e nel destro la mascotte della squadra o un riferimento alla città d’appartenenza.
Questa “tradizione” della mascotte unita ai colori sociali fu utilizzata spesso durante le prime edizioni degli album Panini, forse a causa del fatto che alcune squadre, anche se non avevano un logo propriamente detto, avevano comunque un “simbolo”, oppure perchè in questo modo si poteva proporre un prodotto commercialmente più accattivante.
L’usanza delle mascotte fu lanciata nel settembre del 1928 dal Guerin Sportivo che proponeva di associare ad ogni squadra l’immagine di un animale con la seguente motivazione: “tutti comprenderanno come giovi alla simpatica popolarità d’una unità calcistica una caratteristica facile, che colpisca la fantasia del pubblico giovane, facendo sorridere e prestandosi all’esaltazione quanto all’umorismo. Forse molte squadre non hanno la celebrità che si meritano appunto per questo grigiore, per questa mancanza di denominazione popolaresca”.
Il settimanale invita così i suoi corrispondenti a interrogare gli sportivi della propria città e, attraverso dei referendum sulle testate locali, scegliere un animale o comunque un personaggio da abbinare alla propria compagine calcistica partendo dai colori sociali, dallo stemma cittadino o dalla maschera del posto.
Il discorso nacque direttamente dalla fantasia di “Carlin” Bergoglio, grande redattore del Guerin Sportivo, giornalista, disegnatore, umorista e scrittore. Fu sua l’idea di semplificare l’appartenenza a un campanile individuando un simbolo per ogni squadra, attingendo soprattutto al mondo animale (infatti le chiamò animalìe) e classificando la raccolta sotto il titolo L’Araldica dei Calci.
Grazie a questo linguaggio visivo si fece spazio un nuovo modo di fare giornalismo, più efficace e corrosivo, e la sua immediatezza ne moltiplicò la capacità critica. Infatti, da quell’edizione del Guerin del 10 ottobre 1928, l’usanza dilagò fra gli sportivi italiani con stupefacente rapidità: faceva piacere riconoscere la propria squadra in uno stemma “nobiliare”, anche se l’implicito tono goliardico induceva più al sorriso che all’orgoglio.
Benchè sembri che qualcuno non abbia immediatamente apprezzato e ci siano state trattative per variare o modificare gli abbinamenti sgraditi, è comunque significativo notare che nessuno si sia mai tirato indietro snobbando il gioco.
Il catalogo riguardava le società principali e allora vediamo cosa seppe partorire la matita del Carlin, riportando alcune delle sue didascalie.
Al Torino, campione in carica, fu assegnato un Toro rampante in campo granata che calcia un pallone e, lo dice Carlin, sicuramente farà goal.
Alla Juventus toccò una Zebra “che dice sempre no e rampa in salita”.
Il Milan fu visto come “un Diavolo che non ha paura di assidersi su qualunque braciere e mette la coda ovunque”.
L’Inter (Ambrosiana) fu accoppiata al “Biscione” Visconteo-Sforzesco.
Il Genoa, naturalmente, fu raffigurato come un grifone, antico emblema cittadino, anche se declinato nelle sembianze di un meno mitologico avvoltoio.
Per la Roma venne in soccorso la storia: una Lupa con i gemelli che bisticciano fra loro.
Con l’Alessandria prevalse il colore e a causa del grigio fu obbligatorio scegliere l’Orso. Inizialmente aveva un Borsalino in testa (il cappellificio Borsalino era infatti una storica azienda locale) ma poi sembrò più opportuno liberarlo da quell’orpello commerciale.
È curiosa la definizione che riguarda il Bologna: “un Balanzone gioca con lo scudetto che non si vede, perché l’ha nascosto dietro per non farsi tener d’occhio”. Un’interpretazione genoana, potrebbe leggerci un riferimento agli spareggi della “stella rubata” poichè inoltre Carlin ironizza su Arpinati (gerarca fascista, presidente della Figc, tifosissimo bolognese e autore della “rapina” al Genoa) chiamandolo “sua maestà Leandro I”.
Fra Padova e Bari c’è un po’ di confusione perché entrambe si rifanno al Gallo. Per i veneti è la variazione maschile della mitica gallina padovana con tanto di calzoni e cresta doppia, anche se la tifoseria voleva a tutti i costi inserire il più mistico S. Antonio. Per i pugliesi invece c’è un Galletto più spennacchiato, con cresta e speroni ma canterino, petulante e impertinente, proposto dalla stampa locale a sfavore del pettirosso.
Ecco adesso un gruppo di abbinamenti senza fronzoli e senza troppi discorsi.
Alla Pro Patria di Busto Arsizio il Tigrotto, felino dai balzi pericolosi; al Casale un Cinghiale irsuto e indomabile; al Legnano il Guerriero Alberto da Giussano (oggi più noto come simbolo della Lega Nord); alla Pro Vercelli un Leone appostato che attende la preda e al Livorno una Triglia dagli occhi dolci che guizza.
In certi casi ha prevalso il simbolo della città, e così si spiega la Scala in mano al Cangrande per Verona e il Canarino per il Modena, rappresentazione cromatica dello stemma comunale. Infine, eccedendo in felini, la Leonessa di Brescia e il Leone evangelico di Venezia.
A Trieste la società chiese “il Muletto che tira calci sorprendenti”, mentre per l’Atalanta di Bergamo fu semplice accostare l’eroina tebana, che sfida tutti nella corsa allo scudetto.
Al Novara, infine, fu assegnato il Falco dopo vibranti petizioni di quella tifoseria: da notare che quel rapace aveva avuto ben sei richieste da altre piazze, segno che il suo stile di piombare sulle prede e ghermirle attizzava la fantasia.
C’è poi una serie di simboli che non ebbe successo e che il tempo sostituì con altri più appropriati.
È il caso del Napoli che ai suoi albori provò ad adottare dal gonfalone della provincia il Corsiero del Sole, il mitico Cavallo simbolo della città fin dal medioevo, ma poiché nel suo primo campionato (1926) la squadra arrivò ultima, per le strade e sui giornali si diffuse la battuta che quel destriero somigliasse più che altro al “Ciuccio di Fichella”, figura popolare partenopea accompagnata da un vecchio asino malandato dalle proverbiali 99 piaghe e dalla coda fradicia, più conforme alla situazione.
Carlin provò ad abbinargli lo “Scugnizzo che suona allegro e chiassoso”, ma non durò: per affetto o scaramanzia la forza del Ciuccio resiste ancora.
Una sorte simile toccò alla Fiorentina, che oggi espone semplicemente un Giglio, ma nell’Araldica dei Calci le era toccato il Grillo: “vivace, saltatore di prima forza e… gran parlatore”. Evidentemente, a Firenze, l’idea del Grillo parlante dava fastidio.
Anche la Lazio subì modifiche, per lei Carlin scriveva: “Chi meglio del Bufalo era adatto a rappresentare il (sic) Lazio?”. Ma l’aquila che accompagna i biancocelesti fin dai primi anni ha sempre tenuto ben saldo lo stemma tra gli artigli.
Biella, per i suoi tessuti, era considerata la Manchester d’Italia, e per la Biellese fu scelto l’Omino vestito elegante, preferito alla richiestissima Rana. Ad ogni modo oggi prevale un orso che passeggia sotto un faggio, emblema cittadino.
Quelli della Pistoiese avanzarono richieste ritenute “vernacolari” e Carlin, dopo un’indagine per scoprire a cosa si riferissero (i pistoiesi si proclamavano “Micchi”) optò, forse sbagliando, forse di proposito, per un’agile Scimmia protesa all’ingiù. Per chi non lo sapesse, però, i Micchi non sono altro che i due orsi a sostegno dello stemma cittadino.
Infine, alla fascistissima Dominante, voluta a tavolino dal regime, il redattore accostò un Lupo “naturalmente nero”.
Rimasero due casi inespressi e Carlin, chiedendo aiuto ai supporter locali, se la cavò sul momento con un po’ di ironia.
Infatti, per il Prato, non sapendo cosa scegliere, scrisse che in redazione avevano studiato inutilmente notti intere riducendosi come… “stracci” per trovare un accostamento adeguato. Per la Cremonese, ricordando le mitiche 3 T, avrebbe volentieri inserito una Balia dal seno rigoglioso, ma gli parve inopportuno.
Carlin Bergoglio, tuttavia, ci lascia anche un’incognita: la mascotte della Fiumana, la disegna ma non ne parla, sembrerebbe una rana pescatrice ma i motivi della scelta restano ignoti.
Con gli anni la tradizione delle mascotte divenne una regola e nacquero simboli per ogni squadra. I giocatori del Foggia, ad esempio, divennero per tutti “i Satanelli” nel 1930 grazie al giornalista Mario Taronna, mentre il cosiddetto “Baciccia”, il marinaio simbolo della Sampdoria, accompagna la squadra fin dai primi anni di vita anche se il sodalizio è relativamente giovane (1946).
Baciccia era, e in parte è ancora, il diminutivo di un nome di persona molto diffuso a Genova: Giambattista o Giovan Battista. In realtà indica anche una maschera raffigurante un popolano buontempone e gaudente e spesso il Baciccia è evocato nel teatro dialettale genovese. Baciccia (scritto Bachicha) è inoltre un appellativo gergale con cui in Argentina, Cile ed Uruguay vengono definiti gli italiani. Viene da sé, quindi, che il marinaio rappresenti il genovese per antonomasia, lupo di mare e battezzato Giambattista.
Le mascotte tennero banco sugli album Calciatori Panini almeno per tutto il primo decennio di edizioni, soccombendo alcune volte solo di fronte all’utilizzo dell’emblema cittadino.
Solamente dall’album della stagione 1969-70 cominciarono a fare capolino gli adesivi con degli stemmi più o meno ufficiali. Per la Panini gli anni settanta furono un periodo di creatività e sperimentazione ma anche di grande approfondimento. L’uscita dell’album è accompagnata da quella dell’Almanacco Illustrato del Calcio, edito per la prima volta dal 1971.
La struttura dei ritratti dei giocatori cambia diverse volte: si comincia nel 1969-70 con la figura intera, nel 1971-72 si torna al classico mezzobusto, nell’edizione ’72-’73 si passa alle foto dei calciatori in azione, che tornano quattro anni dopo. Le restanti edizioni sono un alternarsi tra mezzobusto e figura intera.
Le mascotte delle squadre assumono più rilevanza rispetto a quelle degli anni sessanta ma appaiono separati dallo stemma della squadra cominciando così a distinguere per bene le due cose.
Quasi sicuramente la popolarità delle collezioni Panini, assieme alle mutanti condizioni dell’ambiente economico, spinse molti club a dotarsi di un vero e proprio logo il quale, tuttavia, era ancora lontano dall’essere concepito come marchio registrato e fonte di guadagno. L’unica eccezione catalogata era la mitica “R” sulle maglie della Lanerossi Vicenza, marchio del colosso laniero proprietario del club fin dal 1953, ma a quell’epoca la squadra era una vera e propria costola dell’azienda tessile.
Inoltre, le uniche squadre a portare costantemente cucito sul petto un simbolo prima degli anni ’80 erano poche, riportabili sulle dita di una mano. Oltre alla già citata LR di Vicenza c’erano:
il Cagliari che portava con orgoglio lo stemma della Sardegna,
il Genoa, con il grifone in campo rossoblù e la croce di San Giorgio “al capo”,
la Fiorentina con il giglio rosso, principale segno distintivo di Firenze,
e la Sampdoria con lo scudo di San Giorgio al centro del petto, sovrapposto agli “hoops” orizzontali della maglia blucerchiata.
Potremmo aggiungere all’elenco anche altre compagini quali la Triestina e il Padova, di cui non abbiamo una documentazione fotografica accurata e sistematica, ma il fatto stesso che il simbolo sia parte dei loro soprannomi cromatici (rossoalabardati e biancoscudati) la dice lunga sull’importanza che ha ricoperto lo stemma cucito sulla maglia.
Le cose, ad ogni modo, stavano pian piano cambiando ed il calcio, con gli anni, si stava affermando come uno dei principali business del Bel Paese. Di lì a poco ci sarebbe stata una vera e propria rivoluzione nella società italiana ed il mondo del pallone avrebbe scoperto che le proprie potenzialità economiche avrebbero potuto superare le aspettative fino ad allora contemplate.
Tale scoperta passava naturalmente per “l’immagine” con la conseguenza che ogni stemma sarebbe, presto o tardi, nel bene o nel male, divenuto un brand.