A meno che non abbiate passato l’ultima settimana su Marte, è impossibile che non vi siate imbattuti almeno una volta, in una chiacchierata davanti alla macchinetta del caffé o in una conversazione social, in Marty, Doc e nella DeLorean più veloce mai costruita…
Sono giorni, questi, in cui cui il mondo intero sta festeggiando il trentennale di una delle saghe cinematografiche più celebri e osannate, quella di Ritorno al futuro, a seconda dell’età da rivedere o riscoprire, ma in entrambi i casi sempre capace di farci sognare a occhi aperti, sul nostro passato e ancor più sul nostro futuro.
Anche noi vogliamo accodarci a questa “febbre temporale”, chiamiamola così, che inevitabilmente ci porta indietro nel tempo, a quando per la prima volta sentimmo parlare di tempocircuiti e gigawatt, a quando facemmo la conoscenza della ridente Hill Valley e dei fantascientifici hoverboard. A quando, semplicemente, eravamo più giovani e spensierati.
Infatti, mentre le celebrazioni di questi giorni sono tutte volte al nostro 2015, l’anno immaginato da Robert Zemeckis… trent’anni fa, noi preferiamo al contrario fare un salto al Cafe 80’s per tuffarci in quel decennio che, dal punto di vista a noi più affine — quello pallonaro —, fu capace di offrirci uno spettacolo assolutamente ineguagliabile.
Come eravamo
Era il tempo in cui eravamo l’ombelico del mondo, con la nostra Serie A al suo massimo splendore: il campionato più bello del mondo, così lo chiamavano tutti, la meta prediletta dei fuoriclasse di ogni latitudine che facevano a gara per accaparrarsi uno dei pochi slot al tempo riservati ai campioni stranieri, facendo sì che anche la provincia potesse ambire, almeno la domenica, a vestirsi da big.
Tutt’intorno, erano gli anni di una Guerra Fredda che volgeva faticosamente al termine, di un Messico capace di resistere a uno dei più terribili terremoti della storia, di We Are the World e del Live Aid, di un misconosciuto trattato internazionale firmato nella piccola Schengen, di walkman e musicassette, e di un baffuto idraulico italiano di nome Mario.
A casa nostra erano gli anni di Pertini e Craxi, di Pippo e Mike, di Alboreto e Patrese, di Moser e Saronni, dell’Olimpia di D’Antoni e Meneghin, e di paninari e yuppie che perdevano la testa per Heather Parisi in TV, Nastassja Kinski al cinema, Renée Simonsen in passerella e Katarina Witt sul ghiaccio… la domenica, invece, erano altre le gambe per cui fremevano i maschi della penisola, quelle di Maradona, Platini e Rummenigge.
Ma non è di pura tecnica che vogliamo parlare, né di gol e trofei, quando delle casacche di quell’ormai lontano 1985; viste con gli occhi del terzo millennio, quasi uno spartiacque fra la tradizione, l’eleganza e la semplicità del calcio che fu, e le rivoluzioni stilistiche e cromatiche che nei successivi anni ’90 troveranno un terreno fin troppo fertile.
Serie A
Il bianco, il nero e l’azzurro
Trent’anni fa, Marty McFly iniziava il suo incredibile viaggio a spasso nel tempo, la sua lunga odissea nel cercare di tornare a casa. I tifosi italiani, invece, come in un sabato del villaggio dei tempi moderni, attendevano il giorno dopo per seguire l’ottavo turno di campionato. Altri tempi, altro calcio e altre abitudini: la schedina come rito settimanale, le partite alle 14:30, la radiolina al posto della fidanzata, e la caotica banda di Paolo Valenti a darci verso sera le prime, sfocate, sgranate immagini della domenica.
Quel 26 ottobre 1985, in testa alla classifica c’era la Juventus di Platoche che ventiquattr’ore dopo, corsara a Udine, metterà a referto l’ottava vittoria consecutiva di quell’inizio di torneo; un filotto che sarà interrotto sette giorni più tardi dal Napoli del D10s, autore di uno storico calcio piazzato che, probabilmente, ancora oggi sarà protagonista dei peggiori incubi di Stefano Tacconi…
Due divise, queste, nel solco della tradizione. Quella bianconera — che di lì a breve salirà sul tetto del mondo a Tokyo, e qualche mese più tardi farà suò l’ultimo scudetto del plurivittorioso ciclo del Trap —, firmata Kappa, mostrava un quadrato nero sulla schiena, e l’unico vezzo di stile nella cosiddetta «scatolina» dorata atta a contenere le (allora) due stelle. Dello stemma juventino del decennio, la zebra rampante, nessuna traccia fra le strisce bianconere.
Similmente quella dei partenopei, vestiti da un altro simbolo del calcio anni ’80 quale fu Ennerre, eccetto per la singolare scelta di cucire sopra al cuore lo sponsor tecnico anziché lo stemma societario era, né più né meno, una banale casacca azzurra. Erano altre le uniformi che volevano sfidare l’opinione dei tifosi, in una nazione dove il calcio è una seconda religione, e la maglia spesso vista come una intoccabile reliquia.
Milan Ape Maia
Quella del Milan, ad esempio, che in quell’ottobre pure si trovava a pochi punti dalla vetta, ma destinato presto ad affogare in una spirale negativa che a fine stagione costerà loro le coppe europee e, dopo l’improvvisa fuga del patron Farina in Sudafrica, un concreto rischio di fallimento. Eppure i rossoneri si presentavano al via con ben altre ambizioni, riassunte nell’insolito tridente Vi-Ro-Ha che, accanto ai confermati Virdis e Attila Hateley, accolse il neoacquisto Pablito Rossi.
Un trio tuttavia incapace di rispolverare i fasti del ben più noto Gre-No-Li, così come di lasciare nella memoria le maglie da questi indossate… Soprattutto quelle viste a inizio stagione, quando Gianni Rivera — sì, proprio il Golden Boy, che nel 1985-86 “firmò” con il suo marchio tutto il vestiario rossonero — propose una singolare divisa, allo stesso tempo sia nel solco della tradizione, sia con un marcato tocco di innovazione.
Una palatura molto fitta, la stessa del Foot-Ball and Cricket Club degli albori, andava curiosamente a dipanarsi senza variazioni anche alle maniche, cerchiando di fatto come il corpo di una vespa le braccia dei Diavoli. Proprio il Diavolo, divenuto in quegli anni stemma e mascotte dei meneghini, era l’unico assente dalla maglia, dato che la stella era invece luminosa al suo posto.
Ne venne fuori una soluzione sicuramente originale, ma che evidentemente non riscosse il benché minimo favore, tanto da essere abbandonata già nel corso del girone d’andata per diventare, da lì in avanti, soltanto l’ossessione di tanti collezionisti.
Saudade Udinese
L’ape maia milanista fu nulla rispetto a vere innovazioni che si videro in quegli anni sui campi della Serie A. La palma dei più audaci andò probabilmente ai designer Diadora, che già dalla stagione 1984-85 avevano pesantemente trasformato la divisa dell’Udinese.
C’è da dire che le Zebrette, al tempo, non erano certo estranee a sperimentare nuovi linguaggi stilistici, avendo negli anni passati già abbandonato la loro storica maglia palata in favore di un kit “Ajax Style” che ancora oggi, a una generazione di distanza, continua a vantare una discreta schiera di appassionati…
Ma, indubbiamente, ben più audace fu quanto escogitato dall’azienda trevigiana che affibbiò a Edinho e compagni una divisa nera attraversata da una voluminosa sbarra bianca, per un risultato che, forse memore delle recenti magie di Zico, tradiva una certo debito verso il fútbol sudamericano.
Una proposta, questa, che a differenza di quella rossonera troverà maggiori consensi, affermandosi per tutta la metà degli anni ’80 ed entrando stabilmente nel novero delle più rappresentative uniformi del club friulano, tanto da venire in seguito rispolverata sul finire del millennio per le sempre più frequenti sortite bianconere sul palcoscenico europeo.
La Viola e la Bianca
È invece finita un po’ nel dimenticatoio un’altra casacca che ha innegabilmente contrassegnato il calcio nostrano di quel decennio. Per la città di Firenze, questa decade toccò tutti gli stati d’animo del tifo: l’arrivo dei Pontello ai posti di comando, nel 1980, aveva prepotentemente riportato la Fiorentina ai vertici nazionali…
…tuttavia con il passare delle stagioni la squadra non seppe conservare lo status raggiunto e, complice anche il crepuscolo della carriera della sua più luminosa bandiera, Giancarlo Antognoni, finì a vivere campionati ogni volta sempre più travagliati.
Un’altalena sportiva che, paradossalmente, in qualche modo si riverberò anche sulla casacca viola, mai come negli anni ottanta ostaggio di moda e soprattutto marketing, parole che per la prima volta facevano stabilmente capolino nell’italico pallone.
Una voglia di sperimentare che, a metà di quel decennio, portò i gigliati a optare abbastanza stabilmente per una divisa fasciata, cerchiata da un grande inserto bianco che, per non farci mancare nulla, aiutava lo sponsor automobilistico del tempo a risaltare ancor più davanti a fotografi e telecamere…
Per un squadra storicamente nota come la Viola, indubbiamente il ricorso a così tanto bianco fu una mezza rivoluzione, forse ancor più di quel giglio alabardato forzatamente introdotto qualche anno prima. Una maglia che ballò lo spazio di poche stagioni, ma giusto in tempo per annoverare le magie di Sócrates e di un imberbe Roberto Baggio.
Una fascia che, ciò nonostante, quasi due decenni più tardi riuscirà a lasciare un segno ben più profondo nella storia del calcio fiorentino quando, con la sola variante delle tinte inverse, andò a cerchiare la rinata Fiorentina, pardon Florentia Viola, sui campi della Serie C2.
Provincia alla ribalta
Tornando a trent’anni addietro, gli ultimi scampoli del 1985 ci rimandano invece a colori da tempo assenti dalla Serie A, forse persino sconosciuti agli appassionati più in erba, su tutti l’azzurro del Como e il verde dell’Avellino. Colori capaci di attirare campioni quali Hansi Müller e Ramón Díaz, colori che rendevano il nostro campionato un unico crogiolo di emozioni da Nord a Sud.
E proprio dal Meridione vennero quell’anno le maglie di due storiche sudiste, entrambe pronte a riaffacciarsi sul palcoscenico più prestigioso. Il Bari — ancora di bianco vestito, e ancora con il galletto sul petto — nell’occasione uscito da quindici anni di purgatorio, e soprattutto i giallorossi del Lecce i quali, esclusa la fugace comparsata nella Lega Sud del 1922-23, erano al loro storico esordio nel girone unico.
Il calore del Sud, cui faceva da contraltare il pragmatismo e l’efficienza del Settentrione riassunta in un’altra storica provinciale, la bianca Longobarda di Oronzo Canà e Aristoteles… ops, scusate, questa è un’altra storia: la stessa della Marchigiana, di Paulo Roberto Cotechiño e del Bar dello Sport…
Profondo Rosso Roma
Ma se parliamo di colori, non possiamo tralasciare la maglia che suo malgrado visse la maggior tragedia — sportivamente parlando, s’intende — di quella stagione. Parliamo della Roma tutta zona del rampante Eriksson, una delle grandi protagoniste di una decade in cui forse come mai in passato (e mai più in futuro) lo scudetto se ne andò in tante diverse squadre, tante diverse città.
Pur privi di un Falcão tornatosene polemicamente in Brasile senza proferire alcun «obrigado», i capitolini di Pruzzo e, da qualche mese, di Boniek sembravano, a 180′ dal termine, davvero a un passo dallo strappare in pochi anni un altro tricolore allo strapotere del Nord… se non fosse arrivato quel black out casalingo contro i già retrocessi salentini, ancora oggi inspiegabile e, per questo, ancora oggi una ferita mai del tutto rimarginatasi.
Sarebbe stato, quel che non è stato, la definitiva consacrazione per un gruppo che già era arrivato a un paio di rigori dal tetto d’Europa. E, forse, la definitiva consacrazione anche per quella divisa che, proprio in quegli anni ’80, andò per le prime volte a tingersi completamente di rosso.
Un completo all red che finirà per crescere un’intera generazione di tifosi della Lupa, chiamati ad ammirare una formazione mai tanto ricca di campioni, mai tanto vincente. Una scelta, quella rossa, che da lì in avanti diverrà per taluni quasi la seconda pelle per antonomasia dei calciatori romanisti, forse l’unica innovazione stilistica di quel decennio che, in seguito, non sarà dimenticata ma anzi, spesso riproposta e talvolta rimpianta.
Arena, ancora per un po’, Tricolore
Ma quel campionato 1985-86 passò agli annali, in fatto di maglie e scudetti, anche e soprattutto per una prima e fin qui unica volta, che vide il tricolore trovare posto sulle maglie gialloblù del Verona.
Pochi mesi prima gli uomini di Osvaldo Bagnoli — capace di assemblare in un meraviglioso spartito quelli che, in gran parte, erano solo scarti delle cosiddette big — erano stati artefici di uno dei maggiori exploit di cui si ha memoria nella storia moderna del calcio, riportando la provincia italiana dove non arrivava da sessant’anni (Vercelli, Casale Monferrato…), e dove mai più è arrivata.
Non parliamo di un fuoco di paglia, perché quel Verona fu davvero una delle protagoniste di quel decennio, con due finali di Coppa Italia e lusinghiere prestazioni nelle competizioni europee. Ma i panni della “Grande”, per evidenti ragioni storiche, geografiche ed economiche, non furono nelle corde degli scaligeri, presto eclissatisi e pertanto incapaci di difendere quanto meritatamente conquistato l’anno precedente.
Rimase l’orgoglio di vivere un intero torneo con lo scudetto cucito sopra al cuore, sopra maglie che mai come allora videro addosso tanta gloria. Certo, riguardando quella casacca firmata adidas, si rimane un po’ basiti nel vedere come, per far posto al tricolore — rigorosamente apposto, com’era consuetudine, sul lato destro del petto –, i due Mastini finirono retrocessi addirittura sotto al jersey sponsor!
Al tempo, come detto, pensare di posizionare il simbolo della vittoria lontano dal cuore, sembrava pura eresia… toccherà attendere il Duemila, con quell’insolito biennio a tinte romane — prima Lazio e poi Roma —, per vedere per la prima volta lo scudetto farsi da parte e cercare altri lidi sulla maglia, senza la pretesa di voler andare a sfrattare lo stemma societario.
Nel 1985 erano altri tempi, certo, ma ciò nonostante non può non suscitare una qualche emozione, anche tre decenni dopo, veder così svilito quello che, per buona parte del tifo, rimane l’unico simbolo deputato a conservare e tramandare la storia e i valori di un club. Semplicemente, di una passione.
Serie B
Alabarda XL
E se parliamo di stemmi e simboli, è impossibile non volgere uno sguardo anche alla Serie B, campionato che forse in quella stagione ci offrì spunti e sperimentazioni anche superiosi rispetto alla massima categoria. Se per il Verona, come abbiamo visto, lo stemma fu quasi uno scomodo impaccio sulla maglia, l’esatto opposto avvenne sopra la rossa casacca della Triestina, in questa decade sfortunata nell’inseguire una promozione sempre sfumata sul filo di lana.
Un nome storico del calcio italiano, seppur assente dalla Serie A dal lontano 1959, ma capace di rimanere comunque impresso nella mente degli appassionati. Come avvenne per tanti altri club del tempo, anche i giuliani rimasero invischiati nel tunnel del makeover, sottoponendo la propria uniforme a corposi cambiamenti che, nel loro caso, coinvolse più di tutti il loro stemma, l’alabarda.
Già ridisegnata nel 1982 secondo le mode del tempo — in una versione mai troppo amata dalla tifoseria, ironicamente ribattezzata cocal (gabbiano) per la somiglianza più alla silhouette del pennuto che non di un’arma —, nell’occasione questa migrò (scusate l’infima battuta) dal cuore al busto, estendendosi a tutta la larghezza della divisa.
Una soluzione più affine al mondo delle franchigie nordamericane che non dei club italiani, sdoganata a suo tempo da J.D. Farrow’s per la Fiorentina d’inizio decennio. La grande alabarda, quell’anno firmata Fashion Sport, contrassegnerà i giocatori triestini per quasi tutti gli anni ’80 e, anche se in qualche modo finirà per snaturare quella classica maglietta rossa, indubbiamente ebbe il pregio di conferire il maggiore risalto possibile al simbolo di una squadra, di una città, di un intero popolo.
Brescia. Scritto senza la V
Lo stesso non si può dire di un’altra uniforme, quella del Brescia, che pure ai nostri occhi appare come una delle più identitarie al mondo. Quello scaglione rovesciato non ha infatti bisogno di presentazioni, deputato dal 1927 a introdurre in campo l’undici delle Rondinelle.
Eppure, se andassimo a spulciare negli archivi bresciani ci renderemmo conto di quante varie e diverse siano state, dagli anni ’70 e per il successivo quindicennio, le divise che hanno calcato l’erba del Rigamonti: da soluzioni small a semplici magliette a tinta unita, da arditi template spaccati a insolite sbarre, tutto a discapito di quella povera scapulaire de’ noantri troppo spesso maltrattata, soprattutto una volta che l’invadenza degli sponsor la additò per sempre a scomodo impaccio con cui convivere.
Questo fu ciò che accadde nel 1985, quando la maglia bresciana era formalmente attraversata da un canonico scaglione, tuttavia diventato quasi invisibile poiché letteralmente assottigliato dai designer Gazelle, nonché spostato verso la zona inferiore del busto per lasciare spazio al rinnovato stemma della Leonessa — pure qui spostato e ingrandito al centro del petto, evidentemente la Fiorentina fece scuola in questa decade — e, più verosimilmente, al marchio pubblicitario sovrastante.
Una divisa comunque vicina, più di altre del decennio, alla tradizione delle Rondinelle; e forse, per chi crede in queste cose, non sarà stato un caso vederla a fine stagione cogliere la promozione in Serie A.
Serie B… andiera
Promozione che, suona strano dirlo oggi, non riuscì a centrare la Lazio. La società che appena dieci anni prima sfoggiava lo scudetto sulle maglie, toccò negli anni ’80 il punto più basso della sua storia moderna stagnando per varie stagioni in serie cadetta; il tutto mentre l’altra metà della città eterna, inversamente, era nel pieno di momenti fra i più esaltanti mai vissuti.
Fu questa, per il popolo biancoceleste, una decade di profonda e indicibile sofferenza. Anni in cui le parole «Serie» e «C» non erano più un semplice sfottò ma, al contrario, divennero via via un tangibile spauracchio che, un paio d’anni più tardi, solo una zampata al fotofinish di Giuliano Fiorini eviterà di trasformare in atroce realtà.
Ma furono anche anni che, proprio per la situazione quasi disperata, quasi a un passo dalla definitiva scomparsa, finirono per cementare profondamente il legame fra squadra e tifosi, pronti a gremire ogni domenica gli spalti del vecchio Olimpico anche di fronte ad Arezzo, Campobasso, Sambenedettese… sempre al proprio seggiolino, sempre come fosse una finale.
E questo senso di appartenenza, ancora oggi, sopravvive racchiuso in un semplice capo, una «maglia bandiera» che dopo trent’anni ancora fa fremere chi ebbe il privilegio di vederla in campo con i propri occhi. Una maglia che ha finito per fagocitare tutte le altre casacche laziali degli anni ’80, divenendo per appassionati e non l’icona per antonomasia di quel decennio a tinte biancocelesti.
Un vero e proprio paradosso poiché, in realtà, quella divisa venne sfoggiata unicamente in due stagioni, 1982-83 e 1986-87: ma, verosimilmente, le emozioni che si portarono dietro tali annate — rispettivamente il ritorno in Serie A dopo il pasticciaccio del Totonero, e la Serie C scampata all’ultima giornata — finirono per conferire alla maglia bandiera un’aura ancora maggiore rispetto a quella pur giustamente acquisita.
Invece, in quel 1985 la Lazio indossava la sua tradizionale maglietta, celeste con bordini bianchi. L’inconfondibile aquila stilizzata della famiglia Casoni, introdotta come stemma societario nel 1982, qui rifugge dal cerchiare il busto dei calciatori limitandosi, molto semplicemente, a svettare in piccolo nello spazio sopra al cuore.
Una soluzione classica e discreta, ma che forse finì per svilire quel simbolo così caratteristico, imprigionato e impossibilitato a spiegare le sue maestose ali. Perché la maglia della Lazio è — e dovrà rimanere — celeste, ma quell’aquila avrà sempre un fascino senza eguali.
C come Cagliari
Ma, giunti al termine di questo lungo viaggio nel calcio nostrano di trent’anni fa, non possiamo rimontare sulla DeLorean prima di aver dato uno sguardo a quella che, senza dubbio, fu la casacca più ardita della Serie B e, di riflesso, dell’intera stagione. Nel 1985, in cadetteria, potevamo imbatterci nella divisa amaranto dell’Arezzo attraversata, da qualche anno, da uno strano scaglione, o in quella del Perugia che ruppe la monotonia rossa con un insolito palo laterale “Monza Style”…
…ma la nostra attenzione non poteva che essere calamitata dal Cagliari, e dalla sua incredibile — stavolta l’aggettivo ci sta tutto — divisa. A dir la verità, in un certo senso era già incredibile rivedere al Sant’Elia la storica casacca dei sardi, quella metà rossa e metà blu, dopo che nei tre lustri precedenti questa aveva spesso ceduto il passo a una semplice maglia bianca, divenuta a furor di popolo la titolare dopo il memorabile scudetto di Gigi Riva.
Arrivati alla metà degli anni ’80 il rossoblù stava tornando stabilmente al suo posto, sennonché Ennerre, vera prezzemolina di questa decade, decise per qualcosa di molto vicino a una rivoluzione, innovando la divisa degli isolani con l’inserimento di due vistose maniche bianche e, come se non bastasse, una grande «C» sul petto.
Un azzardo, questo ultimo, che in misura minore trovò posto anche sopra la divisa fasciata di cortesia, ma obiettivamente un qualcosa più adatto a una tabella di Snellen che non alla pratica sportiva. Un azzardo, per l’appunto — pur se non era certo la prima volta che un club italiano sceglieva di marchiarsi con una sola, grande, lettera —, che finì per snaturare uno dei completi, e uno degli accostamenti cromatici, più eleganti del calcio italiano.
Un azzardo, tuttavia, che in qualche modo e inconsapevolmente anticipò le grandi rivoluzioni stilistiche pronte a dilagare di lì a qualche anno… ma che forse, in quel 1985, andò troppo oltre perfino per il pazzo e colorato decennio del postmodern e della new wave. Un azzardo, in definitiva, presto ripudiato e dimenticato.
I ♥ 80’s
Grazie a questo viaggio nel tempo solo immaginario ma ugualmente esaltante, abbiamo riscoperto maglie che, trent’anni più tardi, diventano ai nostri occhi uno dei simboli — d’altronde, il calcio è forse l’ultimo rito collettivo che ancora ci unisce — di quella stagione forse edonista e superficiale, ma dopo tanto tempo ancora impressa nei ricordi di chi l’ha vissuta.
Una stagione oggi riscoperta — magari facendo un salto su Soloanni80, la pagina da cui provengono le istantanee che ci hanno accompagnato fin qui — da chi ancora non faceva parte di questo mondo. Magari provando quel pizzico di sana invidia…
Maglie che, pur essendo lontane dalla nostra quotidianità, rimangono a noi vicine per le emozioni a loro legate, per i campioni che le hanno esaltate — e, inversamente, per i primi bidoni che ce le hanno fatte maledire! —; perché hanno segnato quelli che, per alcuni di noi, sono stati gli anni migliori, e perché, semplicemente, ci riportano a un tempo dal fascino immortale.
Maglie strane, insolite, fantasiose, bizzarre, geniali oppure oscene… ma sicuramente, capaci di ritagliarsi un piccolo posto nella storia del calcio. Nel pezzetto di storia — dopo tre decenni possiamo forse dirlo — migliore di tutti.