Si racconta che nel 1988, all’indomani della finale d’andata della Coppa UEFA vinta dall’Espanyol con un roboante 3-0 — che tuttavia non basterà per strappare il trofeo al Bayer Leverkusen —, uno dei maggiori quotidiani di Barcellona se ne uscì in prima pagina con una gigantografia di Johan Cruijff… forse basta ciò per spiegare quanto debba essere difficile, nel cuore della Catalogna, scegliere di tifare per quelle magliette biancazzurre, destinate all’ombra perenne da quegli opprimenti e, ai loro occhi, fin troppo vincenti dirimpettai azulgrana.
Ciò nonostante, dal 1900 a oggi quei colori blanquiazul hanno sempre e fieramente portato avanti una storia, obiettivamente, con più cadute che risalite, ma che non ha precluso al suo pubblico l’ammirare calciatori, e qualche volta veri e propri campioni, che sempre hanno dato il meglio per questa maglia, portando il nome del piccolo Espanyol a vette forse impossibili da raggiungere sul solo rettangolo di gioco.
Tra le leggende che hanno intriso la casacca catalana di sudore ma soprattutto di gloria, la più luminosa, paradossalmente, risponde a un nome che mai ha indossato quelle strisce biancazzurre. Lui non tirava calci al pallone (se non quando necessario), preferiva afferrarlo tra le mani, abbracciarlo come la cosa più cara in quel momento. Lui non correva in lungo e in largo per il campo, ma rimaneva fermo sopra una linea bianca, ad aspettare e a sfidare gli avversari che s’involavano verso la sua porta, come l’ultimo — e spesso insormontabile — baluardo della squadra.
Quell’uomo divenne presto noto a tutti come El Divino. Quell’uomo era Ricardo Zamora. Una leggenda del calcio, uno dei più forti numeri uno… quando i numeri dietro alla schiena, ancora non esistevano! Un nome che ha fatto epoca, uno dei più rappresentativi di un’epoca in bianco e nero ormai lontana e dimenticata, quando assieme ad altre due leggende quali l’italiano Combi e il cecoslovacco Plánička sfidava campi fatti di terra più che di erba, centravanti che non andavano per il sottile senza telecamere e moviole a bacchettarli, e sfere di cuoio rudi e dolorose come cannonate.
Una leggenda, quella di Zamora, che ebbe inizio cento anni fa, il 22 aprile 1916, quando un promettente quindicenne debuttò a difesa della porta dell’Espanyol, una delle squadre della sua città. A quella partita seguì un ventennio di parate che ne fece tra i migliori estremi difensori dell’anteguerra — nonostante una vita privata, si dice, non proprio consona ai dettami di un atleta —, transitando anche per i due più grandi club del calcio iberico, ma restando per sempre legato a quei colori blanquiazul che, di fatto, saranno la sua seconda famiglia sino alla morte.
Zamora fu un portiere impossibile da confondere con altri, anche solo per l’abbigliamento con cui si presentava in campo, con quel basco calato sopra agli occhi e quell’elegante maglioncino a polo, spesso bianco e arricchito da alcune caratteristiche doppie strisce azzurre ornamentali. Uno stile che fece epoca, capace di divenire uno standard per tanti altri estremi difensori del continente, come se quella maglia potesse da sola bastare a replicare prestazioni rimaste nell’olimpo della categoria.
Soprattutto, quel maglioncino biancazzurro divenne la seconda pelle di Zamora, quella con cui oggi rimembrare le gesta di una delle più grandi glorie dello sport. Un indumento rispolverato dai cassetti della memoria in occasione di uno storico anniversario, per ricordare una leggenda e dare nuova linfa alla sua memoria. Un qualcosa che si è materializzato sul prato dello stadio Cornellà-El Prat il 19 aprile 2016, quando l’estremo difensore dell’Espanyol dei giorni nostri, il giovane Pau López, dinanzi al Celta Vigo ha vestito per novanta minuti un vero e proprio pezzo di storia del fútbol.
Ideata come la ciliegina sulla torta di ricordi e omaggi inerenti la figura di Zamora, e presentata nei giorni scorsi dinanzi ad altre due bandiere biancazzurre che per tanti anni ne hanno difeso la porta, Juan José Bertomeu e Thomas N’Kono, questa divisa ha visto Joma riproporre l’esatto template reso celebre dal Diví. Un grande scaglione azzurro, sdoppiato e rovesciato, catalizza l’attenzione su di una casacca altresì completamente bianca, eccetto per altre bande azzurre che vanno a ornare, esattamente come un secolo fa, le maniche e la parte bassa del busto.
Un colletto a polo dai lembi abbastanza pronunciati contribuisce a ricreare l’idea di un’uniforme d’altri tempi, mentre come licenza di stile rispetto al calcio dei pionieri, lo stemma societario — di fatto rimasto immutato sino a oggi — fa capolino nel suo tradizionale spazio sopra al cuore, arricchito dall’iscrizione celebrativa «1916-2016» alla base. Stante l’assenza del jersey sponsor, l’unico anacronismo dell’operazione risiede (ahinoi) nei loghi Joma presenti su petto e spalle, e la cui assenza avrebbe sicuramente giovato all’aura vintage che permea l’intero progetto.
Uno scivolone agli occhi dei puristi, così come non si può etichettare altrimenti la scelta di mandare in campo tale casacca abbinandola a pantaloncini e calzettoni della stagione 2015-2016… Fatto sta che, nonostante tutto, per novanta minuti il popolo biancazzurro ha avuto il regalo di rivedere in campo, ancora un’ultima volta, una delle più belle maglie mai ammirate nel corso della loro secolare storia.
Un capo che si è concesso quest’unica apparizione sul rettangolo verde, e che, lo immaginiamo, avrà destato una infinita curiosità negli occhi più giovani (pronti a prender d’assalto la boutique del club), trascinandoli con il pensiero a quando il calcio era davvero solo un gioco. Un calcio fatto di sudore e tanta, tantissima passione. Vero calcio, quello che ci ha consegnato il mito di Ricardo Zamora, semplicemente Il Divino.