Era l’autunno del 1897 quanto un gruppo di liceali torinesi, soliti ritrovarsi nella piazza d’armi cittadina, decisero di dar vita a una squadra di foot-ball, pionieristico sport che proprio in quei decenni incominciava a prender piede nella penisola italiana. Nella scelta del nome, due erano le fazioni preminenti, l’una per Via Fort e l’altra per Massimo D’Azeglio…
…fu invece l’outsider Juventus a spuntarla.
Una parola dal sapore sia anglosassone che latineggiante; soprattutto, un nome fortemente piemontese, poiché la i lunga iniziale è in realtà figlia del dialetto regionale, in luogo dell’originale grafia latina iuventus che identifica la gioventù. Il termine era inizialmente lontano dai favori dei soci fondatori, ma venne probabilmente visto come l’unico capace di far superare l’ambito locale alla nascente società sabauda.
Juventus, dal punto di vista fonetico e grammaticale, è sicuramente qualcosa d’insolito nella nostra lingua; soprattutto per via di quella particolare “J” che, nel XX secolo, contribuirà innegabilmente a farne un nome unico nel panorama calcistico internazionale.
In un club come quello bianconero, che per lunga parte della sua vita è rifuggito da stemmi e simboli sulle maglie, il solo compito di rappresentanza era così divenuto appannaggio delle strisce bianconere, nonché della sua singolare denominazione societaria.
Sfogliando gli archivi della memoria, per decenni abbiamo visto sulle casacche di Rosetta, Boniperti e Platini unicamente lo scudetto, la coccarda tricolore o la stella, distintivi che forse già da sé si prestavano a “introdurre” la Juventus, sovente sinonimo di vittoria. Proprio alla luce di ciò, è ancor più sorprendente scoprire quel che accadde nei primi anni quaranta…
Nella fase iniziale del secondo conflitto mondiale, la formazione bianconera era una sezione della Juventus O.S.A., polisportiva nata nel 1923 e attiva nei campi più diversi, dall’hockey su ghiaccio al tennis.
In ambito calcistico, dopo la sbornia di scudetti del Quinquennio d’oro e qualche anonima stagione, nel 1941-42 il club piemontese rialzò la testa conquistando la Coppa Italia ai danni del Milano (italianizzato con la “o”).
A quell’annata è legato un particolare secondo completo nero – che diverrà coi decenni una delle più famose mute da trasferta dei torinesi, omaggiata quasi fedelmente nel 2012-13 –, dove non può non saltare all’occhio la presenza di una “J” maiuscola all’altezza del cuore.
Vedere un tale segno grafico sul petto juventino è decisamente una sorpresa, trovandoci di fronte quasi a una sorta di stemma “ante litteram”.
L’effetto straniante si amplifica posando lo sguardo sulla casacca sfoggiata dall’estremo difensore, bianca ma griffata da una ancor più grande “J” nera, che qui si estende addirittura lungo tutto il busto; scovando tra le rare foto storiche, scopriamo inoltre come questa uniforme, abbinata a pantaloncini neri, venisse vestita anche dai normali giocatori di movimento della squadra.
Va da se che non è cosa inaspettata vedere calciatori juventini in maglia bianca (o nera): anche in anni recenti, gli sponsor tecnici della Vecchia Signora hanno sovente sfruttato – separatamente – le due tinte della prima divisa, per dar vita alle uniformi away indossate nel tempo da Sívori, Baggio e Del Piero.
Diverso è il discorso se parliamo dello stemma societario: il classico ovale bianconero ha infatti aspettato quasi un secolo per fare la sua comparsa sulle divise della Juventus, debuttando solamente coi completi della stagione 1994-95 – limitandosi inoltre, sulla muta casalinga, a un piccolo fregio nello scollo del colletto.
L’apposizione della sopracitata “J” sulle uniformi del periodo bellico non sembra avere precise ragioni alla base.
L’idea che fosse una sorta di “logo comune” a tutte le sezioni della polisportiva non trova riscontri, soprattutto poiché non ve n’é mai stata traccia sulle canoniche prime maglie strisciate; è infatti solo col nuovo millennio che il club torinese ha iniziato a sfruttare tale consonante come simbolo della sua immagine coordinata, legando sotto a essa tutti i suoi progetti calcistici e non.
Ciò vale soprattutto per la classica away nera. Più complicato appare il ragionamento inerente l’insolita divisa bianca, più che altro perché qui la “J” quasi rifugge dalla funzione di stemma, per andare invece a generare una casacca dal design nuovo di zecca.
Tra le tante, è in questo senso plausibile – e forse, affascinante – l’ipotesi che vuole la maglia bianca come un “esperimento” senza successo; un’anacronistica third, usata in qualche sporadica apparizione ma presto abbandonata per il poco favore riscontrato.
Si tratta di un qualcosa rimasto a lungo confinata nei meandri della storia, dato che già nella stagione 1942-43 la Juventus Cisitalia – cosi ridenominata fino al ’44, a seguito del primo abbinamento di cui rimane notizia nel calcio italiano – affidò la casacca dalla grande “J” solamente al suo portiere.
Una divisa che in breve farà perdere per sempre le sue tracce, così come quella lettera maiuscola che mai più rivedremo sul petto dell’undici bianconero.
Lasciandoci ai nostri dubbi e fantasie, abbiamo riportato alla luce questa chicca nascosta della storia juventina. Un qualcosa che oggi può forse apparire romantico e un po’ vintage, ma non fuori dal tempo: settant’anni dopo, il minimalismo disarmante di quella “J” mantiene intatto il suo graffiante impatto, con una forza e una modernità quasi inaspettata.
Con queste premesse, chissà che un giorno anche la Juventus del futuro non torni a guardare al passato, apponendo nuovamente sul suo cuore quell’antica lettera maiuscola.
Un segno tanto semplice quanto affascinante, e invariabilmente intriso di storia scritta, manco a dirlo, in bianco e nero.
Quando leggo un quotidiano, sia esso anche di finanza o altro dallo sport, e l’occhio mi cade involontariamente sulla lettera “J” di Juventus, il cuore mi sussulta, ricevendo una grande emozione…
— Gianni Agnelli