Quel giorno, negli spogliatoi dello Stadion De Meer, chi stava indossando magliette e scarpini non aveva particolari pensieri che gli frullavano in testa, se non quelli di chi si preparava a novanta minuti fatti di corsa, calci e qualche malizia di troppo.
Le pareti di quello spoglio stanzone, più simili a uno sgabuzzino che agli scintillanti privé dei giorni nostri, erano all’apparenza permeate soltanto di una tensione unica ma ben riconoscibile, uno strano misto tra desiderio e timore, che fa capolino ogni qual volta si trovano di fronte due grandi squadre, due grandi rivali.
Ma quella domenica, dalle parti di Amsterdam, si percepiva forse un’atmosfera diversa da quella che solitamente accompagna una semplice partita di pallone. Nell’aria c’era qualcosa, molto probabilmente qualcuno lo intuiva, ma certamente nessuno ne immaginava la portata. Era un’inarrestabile ventata di novità, ribellione e gioventù, che aspettava solo di esplodere in faccia al mondo e cancellare per sempre un’intera epoca.
Totaal — Il calcio
Quel 30 ottobre 1970, all’apparenza, l’unico motivo d’interesse in città era nello scontro tra 22 maglie biancorosse, addosso ai padroni dell’Ajax e agli ospiti del PSV. Due nomi tradizionalmente sinonimo di calcio nei Paesi Bassi, ma in quei mesi messi all’angolo dall’altra grande del voetbal olandese − curiosamente, anch’essa tinta di biancorosso —, il Feyenoord che aveva appena portato il regno della regina Giuliana per la prima volta sul tetto d’Europa, sollevando a Milano la coppa più ambita, quella dei Campioni.
Tutte le attenzioni degli appassionati olandesi e non, in quello scorcio finale dell’anno, dovrebbero ancora essere per i ragazzi di Ernst Happel. Eppure, già da tempo lo sguardo di chi aveva visto più lungo degli altri, anziché a Rotterdam volgeva alla “Venezia del Nord”.
Sulla panchina dei lancieri sedeva da qualche anno Rinus Michels, bandiera ajacide forgiata vent’anni addietro dagli insegnamenti di Jack Reynold. Quel vecchio trainer inglese, più volte alla guida dell’Aiax tra le due guerre, era stato un personaggio decisamente atipico per il calcio dell’epoca: quando i maestri della disciplina predicavano il mantra del sistema di Herbert Chapman — un carpet football, così lo chiamarono, decisamente attendista —, Reynold andava teorizzando qualcosa di ben più propositivo, ben più offensivo…
Allenamenti specifici per tattica e forma fisica, miglioramento costante della tecnica individuale e collettiva, soprattutto il moloch dell’attacco come miglior difesa: idee che avevano fruttato ai lancieri i primi successi della loro storia, ma probabilmente ancora troppo estreme per la mentalità dell’epoca, per essere non solo accettate ma soprattutto apprezzate. Concetti che saranno ripresi a metà degli anni 60 proprio da Michels, il quale li estremizzerà ancor più fino a farne qualcosa di unico, di ipnotico. E di vincente, per quella piccola nazione che eccetto i fasti ormai stracciati di un lontano impero coloniale, mai aveva avuto un megafono tanto potente per gridare al mondo il suo nome.
Il Wunderteam austriaco degli anni 30, e la Squadra d’oro magiara del secondo dopoguerra, già avevano mostrato l’embrione di un calcio, semplicemente, mai visto prima. Ma è solo con l’Ajax che quel seme germoglierà e attecchirà nel cuore di appassionati ed esteti, per non andarsene mai più.
In quello scorcio finale di anni 60 i lancieri era già depositari di un nome, di una fama, che incuteva timore negli occhi degli avversari… ma per far sì che ciò rimanesse nella storia del calcio, non poteva bastare qualche titolo nazionale. Serviva qualcos’altro, per cambiare il corso degli eventi. Il corso della storia, quella con la esse minuscola e, incredibilmente, anche quella con la esse maiuscola. Quel qualcos’altro stava iniziando a maturare nei campetti d’allenamento degli ajacidi, tra i piedi di una generazione di campioni — Krol, Haan, Neeskens (e un imberbe Rep che scalpitava dal vivaio) — destinata a riempire le pagine sportive per il successivo decennio.
Da qualche tempo, imbeccati da Michels, stavano iniziando a praticare uno strano tipo di gioco, all’apparenza senza capo né coda: iniziavano a chiamarlo totaalvoetbal e, a guardarli tutti e undici in campo, la cosa che più saltava agli occhi era come quei numeri sulla schiena, di colpo, non avessero più alcun significato. Tutti correvano da una parte all’altra del rettangolo verde, tutti attaccavano e tutti difendevano… pressing indemoniato, zona e fuorigioco, terzini che crossavano e centravanti che ripiegavano, financo a Stuy fuori dai pali per inventarsi libero aggiunto… un’astronave aliena sembrava appena atterrata dentro gli stadi d’Olanda. Un’astronave dannatamente efficace.
Veertien — Il numero
Calcio totale. Due parole destinate davvero a cambiare la storia dello sport. Anche se forse ne mancano altre due all’appello, un nome e un numero per la precisione. In quella sfida di fine ottobre, infatti, l’Ajax sapeva di poter contare di nuovo sulla sua stella più luminosa: un ragazzo nato ad appena duecento metri dal catino dei lancieri, e che dopo la precoce scomparsa del padre venne di fatto adottato dal club biancorosso, nelle cui giovanili aveva ben presto iniziato a far sfracelli nonostante un fisico ancora non all’altezza di un talento pure già cristallino.
Quel ragazzo, l’avrete già capito, si chiamava Hendrik Johannes Cruijff, semplicemente Johan. E forse lui non lo sapeva ancora, quel pomeriggio, ma nel suo destino c’era già un numero ben preciso; non uno dei numeri di prestigio con cui in campo soleva sbarazzarsi degli avversari, proprio un numero… matematico! Perché Johan era nato 23 anni prima alle 14:00, abitava in Scholeksterlaan al civico 14, guidava un’auto targata 14-14-TS, e il suo numero di telefono iniziava e terminava con il 14…
Un numero quasi banale, quel 14, nella vita quotidiana, ieri come oggi. Ma su di un rettangolo verde, al tempo, un numero così raramente si era visto prima. Fatto sta che ancora oggi, non sappiamo e forse mai davvero sapremo, come andarono effettivamente le cose quel 30 ottobre 1970 dentro lo spogliatoro ajacide, affinché di punto in bianco quel promettente ragazzo abbandonasse la sua fin lì tradizionale maglia n. 9.
Forse fu tutta colpa di Gerrie Mühren, che confessò di aver smarrito la sua casacca prima di quella partita, facendo sì che Johan gli cedesse la sua ripiegando poi su di un’insolita n. 14; o forse la raccontò giusta proprio Cruijff, quando accennò dell’idea dell’Ajax d’introdurre in quella stagione la numerazione fissa… e lui, infortunato dall’estate, quando tornò in squadra trovò libero unicamente un numero, veertien; o chissà, forse fu il ragazzo a non trovare più la sua n. 9 nei concitati minuti precedenti l’ingresso in campo, pescando così a casaccio dal cestone del magazziniere; o forse, semplicemente, nel momento di tornare finalmente a respirare dopo tanto tempo il profumo dell’erba, Johan si affidò — consapevolmente o meno — a due cifre che nella sua vita, aveva già incontrato tante volte. Un numero che sentiva amico, un numero davvero suo.
Neanche a dirlo, quel giorno l’undici di Amsterdam vinse in scioltezza contro i rivali di Eindhoven. Ma più che una partita vinta, quella data fu testimone dell’inizio di qualcosa mai visto prima. Di un calcio mai visto prima. Parliamoci chiaro, Cruijff non è stato certo il primo atleta a tentare di cambiare un ormai stantìo status quo, né certo è stato il primo idolo capace di superare i confini calcistici per farsi portavoce di un’intera generazione. Appena qualche anno prima, ancor prima dei moti sessantottini, in Irlanda c’era stato un certo George Best che per primo rifiutò le etichette del tempo, aprendo le porte del calcio a una rivoluzione di cui già in lontananza si udivano i primi colpi.
Ma Best predicava ancora nel deserto, in un vecchio football dove i tifosi si presentavano allo stadio ancora elegantemente in tweed e cap, dove i suoi compagni di squadra scendevano in campo rasati e pettinati di tutto punto, dove i colori predominanti del racconto erano in larga parte ancora il bianco e il nero… too Best, but too soon. George seminò, coi suoi capelli e i suoi eccessi, ma chi raccolse i frutti fu indubbiamente Johan, l’uomo giusto al momento giusto. Il momento di aprire una nuova era, calcistica e non.
Con Cruijff si entrò prepotentemente in un futuro che per calciatori e tifosi, ebbe il sapore dello sbarco sulla Luna. Erano gli anni 70, un decennio che cambiò per sempre il nostro modo di vedere lo sport, il calcio più di tutto. Proprio gli occhi furono i primi sensi a percepire un colorato vento di novità… quella palla che da sempre rotolava in mezzo al prato, fin lì tenuta assieme da anonimi pannelli di cuoio marroncino, improvvisamente si mostrò sotto al sole di Messico ’70 in un nuovo abito, due non-colori mai prima di allora così cangianti. Una rivoluzione che, prima a colpi di Telstar e poi a passi di Tango, chiuse per sempre e piuttosto ironicamente l’epoca del bianco e nero, anche grazie a variopinte tinte che sempre più spesso iniziavano a far capolino in quel tubo catodico al centro dei nostri salotti.
E se i cinefili del tempo avevano l’Arancia Meccanica di Kubrick, ai calciofili bastava quella di Michels e Cruijff, passati dall’Ajax all’Olanda senza perdere un briciolo della loro spavalderia tattica, capace in poche stagioni di spazzare via un secolo di certezze. Era un arancione vento di ribellione, un virus inarrestabile che in breve tempo chiuderà per sempre un’epoca romantica, forse più sincera per certi versi, ma ormai sempre più distante da una società in fermento. Una rivoluzione sportiva e ancor più culturale, che aveva uno dei suoi paladini in quel giovane ragazzo, Johan, destinato in pochi anni a diventare un vero e proprio profeta. Il profeta del gol.
Poema — Lo sponsor
Un profeta che in campo sembrava davvero un alieno. Quel ragazzo aveva infatti tutto: forza, resistenza, potenza, tecnica, precisione… semplicemente classe. Classe cristallina, che lo proietterà in poco tempo tra i più grandi fuoriclasse di sempre. Cruijff era unico, non classificabile, impossibile da inquadrare un definizioni preesistenti: in campo non aveva schemi né prigioni, pareva quasi omaggiare il suo numero delle origini, giostrando anarchicamente da falso nueve dalla trequarti, alla fascia, all’area di rigore. Senza regole, ribelle fino in fondo. Non sembrava affatto fuori luogo il paragone tra le ipnotiche movenze di Johan dietro a un pallone, e quelle di un felino a caccia della sua preda, scaltro e veloce, affascinante e maledettamente letale; perché esiste un animale chiamato poema, che per chi non mastica l’olandese si traduce in puma… un altro nome destinato a segnare la carriera di Cruijff.
L’ascesa di quel n. 14 tra Ajax, Barcellona e Olanda, coincise infatti con la trasformazione del calcio in un qualcosa di sempre più mediatico, sempre più legato all’immagine. Le maggiori aziende sportive del tempo, infatti, si erano ormai rese conto di quale straordinario volano fosse diventato lo sport. E in tal senso, quando nel 1971 France Football lo premiò col suo primo Pallone d’oro, non fu certo un caso se l’asso olandese ritirò il premio indossando una elegante giacca firmata… Puma!
Johan ormai non era più solo un calciatore, o il campione più fulgido della sua generazione: era assurto per sempre a un’icona, in pratica a un modo di essere. Un vero e proprio brand a se stante, ora capace di rivaleggiare con la tradizione di un club o con la purezza di una casacca nazionale. Tant’è che neanche quando sponsor tecnici e consumismo faranno ufficialmente breccia nel mondo del calcio — ai Mondiali 1974 in Germania Ovest —, neanche quando stemmi sociali e persino simboli nazionali saranno costretti a lasciar spazio a loghi commerciali, be’ neanche tutto ciò scalfirà l’aura di quell’ormai iconico n. 14.
In quell’estate del ’74, Cruijff era il capofila di una vera e propria generazione d’oro olandese, in quel decennio bella e vincente con le casacche biancorosse di Ajax, Feyenoord e PSV, e altresì bella e… perdente, suo malgrado, con quelle oranje ogni volta costrette a fermarsi, come una beffarda maledizione, a un passo dalla gloria. Ma una bacheca ricca solo di elogi e pacche sulle spalle, non potrà mai cancellare le emozioni di cui furono artefici quei campioni, indissolubilmente intrise in quelle sgargianti divise arancioni che erravano liberamente in ogni porzione di campo.
Undici divise che in questi anni, erano legate tra loro da una sottile striscia, anzi tre… quelle di adidas che da qualche anno, aveva iniziato a griffare le maniche di sempre più squadre e nazionali con le sue caratteristiche stripes. Si trattò di una vera e propria invasione, portata avanti senza guardare in faccia a nessuno, neanche a vecchi fratelli… ma qualcuno, dalle parti del trefoil, evidentemente non aveva fatto i conti con quel n. 14. D’accordo, stiamo pur sempre parlando di vile denaro… ma pensateci bene: in fondo, fin lì i calciatori — coloro che erano, sono e saranno per sempre gli attori principali della scena — di fatto erano considerati solo della pedine, mosse a piacimento sulla scacchiera da presidenti e tifosi; e inizialmente, anche dagli sponsor.
Solo dei bambolotti alla mercé del pubblico, senza diritto di replica né possibilità di scegliere. Che poi oggi, i rapporti di forza siano andati quasi a ribaltarsi, ciò non può cambiare il giudizio su quell’epoca calcistica, su quanto finisse per opprimere l’ambizione e la libertà di ragazzi che volevano solamente correre dietro a un pallone. Cosa inconcepibile, all’epoca, che un calciatore potesse avere addirittura delle idee! Se c’è qualcuno che per primo ha lanciato un guanto di sfida, che può arrogarsi il diritto di aver buttato già un nuovo capitolo, questi non può essere che Johan Cruijff.
Una storia cominciata con un gesto all’apparenza banale, come può esserlo stato scucire una strisciolina dalla sua maglia oranje. Lì per lì quasi un irriverente gesto, a dirla tutta — e verosimilmente, il punto di non ritorno nella faida che da decenni ha insanabilmente spaccato in due la piccola Herzogenaurach —, ma a posteriori, è in quel banale gesto che risiede buona parte dello sport che oggi conosciamo: il frangente in cui anche i calciatori presero piena coscienza di quale forza fosse insita nella loro immagine, nel loro nome. O in un semplice numero. Mai nessuno, prima di Johan, era diventato un tutt’uno col suo numero sulle spalle; tanto che anche al Camp Nou, nonostante l’imposizione di quel vecchio n. 9, tra le strisce blaugrana a noi pareva sempre di leggere un 14. Mai nessuno, prima di allora, aveva difeso con tanta ostinazione il suo pensiero. Cruijff, 14 e Puma, quasi una trinità laica alla base del calcio moderno.
L’abbiamo detto, in fondo è solo sport, solo soldi… e lo stesso Johan ha rimarcato la sua integrità in altre più importanti occasioni — dal battezzare suo figlio Jordi in sfregio al regime franchista, al rifiutare la passerella mundial davanti ai militari argentini. Ma pur essendo solo calcio — la cosa più importante, tra le meno importanti —, rimane inalterata la dirompente forza di quel numero all’epoca così insignificante, e oggi così leggendario; rimane quella maglietta ad hoc, fieramente rifiutatasi di uniformarsi alla massa; e rimane soprattutto quel ragazzo di Amsterdam cresciuto col “semplice” sogno di fare gol, e finito invece col diventare tra i più grandi di sempre, col diventare uno spartiacque tra l’antico e il moderno. Tutto questo, anche grazie a una maglia, soprattutto grazie a un numero.
Grazie, Hendrik Johannes Cruijff.