Ci sono squadre che, semplicemente, rimangono nella storia più di altre. Che rimangono nella memoria più di altre. In fondo, è questo il fascino di Davide che batte Golia, del cigno nero che offusca quello bianco, dell’eccezione che prevale sulla prassi. E sappiamo bene quanto tutto ciò, nello sport e soprattutto nel calcio, sia oggi merce sempre più rara: sarà per questo che ancora abbiamo nelle vene l’emozione per l’impresa del Leicester City, che abbiamo ancora nitida negli occhi la cavalcata europea della Grecia… e che ricordiamo come fosse ieri la vittoria di una squadra che lì, a contendersi quella vittoria, neanche avrebbe dovuto esserci.
Sono già passati 25 anni da quell’estate svedese rimasta nella storia del calcio. Entrata prepotentemente nella memoria collettiva grazie a un trionfo francamente inaspettato, e proprio per questo ancor più bello. Un anniversario che non poteva che essere degnamente celebrato, aprendo il cassetto dei ricordi per riportare alla luce una divisa, quella divisa, l’armatura indossata un quarto di secolo fa da quegli undici — non è affatto una forzatura — eroi nazionali. Ma andiamo per ordine…
Quell’estate svedese
Nel giugno del 1992, tutti gli occhi dei tifosi europei erano puntati sulla Svezia, teatro del nono campionato continentale. O forse sarebbe meglio dire “quasi” tutti gli occhi… sicuramente non quelli danesi! Sia per i supporter sia per i calciatori, quella doveva inizialmente essere solo una vuota estate, dopo che la nazionale scandinava si era arresa nel suo girone qualificatorio alla più talentuosa Jugoslavia di Bokšić, Savićević e Stojković.
Col passare degli anni, l’epica di quell’avventura è stata giocoforza ammantata di fin troppo eroismo, raccontandoci di giocatori richiamati in fetta e furia dalle vacanze, e di un CT costretto ad assemblare una squadra in una manciata di giorni; in realtà già da qualche mese, i tragici sviluppi del conflitto nei Balcani — con la Jugoslavia dilaniata da nazionalismi e guerre civili —, avevano ufficiosamente riaperto alla Danimarca le porte della fase finale dell’Europeo.
Quella di una generazione ormai lontana dai fasti della Danske Dynamite di metà anni Ottanta, tuttavia, sembrava dovesse ridursi più che altro a un simbolico gettone di presenza. L’edizione di Euro ’92 fu infatti l’ultima della storia a vantare una fase finale ristretta a sole 8 nazionali, una scrematura che rendeva ipercompetitivo il lotto dei partecipanti: dalla Francia di Cantona e Deschamps, alla sempre temibile Inghilterra di Lineker e Shearer; dai Paesi Bassi di Bergkamp e van Basten, detentori dell’alloro continentale, ai campioni del mondo in carica Klinsmann e Völler, per la prima volta a difendere le insegne di una Germania finalmente non più solo Ovest.
Le speranze danesi di far quantomeno bella figura, in un parterre del genere, parevano davvero ridotte al lumicino tanto che persino il loro più rappresentativo campione — di tutti i tempi —, Michael Laudrup, coglierà la balla al balzo dei pessimi rapporti col selezionatore Richard Møller Nielsen, per rifiutare la convocazione; e quanto rimpiangerà questa sua scelta, a posteriori, l’avventato Miki!
Alle prese con quella che tutti vedevano solo come un’Armata Brancaleone, il CT scelse di rinnovare profondamente la sua nazionale dando fiducia a una pattuglia di giovani sopra cui svettava, tra i pali, l’ormai sempre più lanciato Peter Schmeichel. Una fase a gironi decisamente “giochicchiata” — dove arrivò anche una cocente sconfitta nel derby scandinavo contro la Svezia di Brolin —, riuscì comunque a trascinare i danesi alle semifinali, forse il massimo traguardo che in cuor loro confidavano di raggiungere.
Quando il destino vuole arrogarsi il diritto di scrivere l’ultima parola, tuttavia, nulla può fermarlo, neanche i più grandi fuoriclasse di un’epoca. Un incredibile spirito di sacrificio — su tutti quello di Kim Vilfort, in quei giorni a far la spola tra il ritiro e l’ospedale, dove sua figlia lottava (purtroppo vanamente) contro la leucemia — e ancor più una difesa granitica, divennero ostacoli insormontabili dapprima per gli olandesi campioni d’Europa, atrocemente sconfitti di rigore, e poi per i tedeschi campioni del mondo, impotenti spettatori davanti a una banda fatta sì di qualche piede buono come Brian Laudrup, finalmente uscito dall’ingombrante ombra del fratello maggiore, ma per il resto solo un insieme di onesti portaborracce, tuttavia resi invincibili dalla voglia, dalla fame di afferrare l’impossibile.
Maglia speciale Danimarca 1992-2017
Sembrano passati in un lampo, questi 25 anni. Ma il ricordo è impossibile da cancellare, tantopiù quando rappresenta l’apice ineguagliato di una vita sportiva. Non vogliamo dire che il 26 giugno sia diventato festa nazionale in Danimarca, ma neanche ci andiamo troppo distanti! Non deve quindi stupire che la federcalcio danese abbia scelto di celebrare degnamente la ricorrenza, mettendo nuovamente di fronte dopo un quarto di secolo le due protagoniste di quella storica sfida.
E così, lo scorso 5 giugno, sul prato del Brøndby Stadion sono tornate ad affrontarsi Danimarca e Germania: molti dei ragazzi scesi in campo, in quel 1992 non erano ancora neanche nati, potendo quindi solo immaginare le emozioni vissute in quei giorni dai loro genitori… ma di sicuro, sono ben consci di cosa rappresenta a tutt’oggi quel trofeo per il loro Paese, i cui precedenti trionfi calcistici si perdono in qualche lontana medaglia olimpica in bianco e nero. Proprio per questo, l’occasione era troppo ghiotta per non elevare il momento con una speciale 25 års jubilæumstrøje. Tantopiù se di mezzo c’è Hummel, che oggi come allora, è tornata a vestire gli scandinavi per un matrimonio che, pur tra qualche controverso passaggio, rimane indubbiamente tra i più riusciti nella storia dello sport.
Beninteso, è palese l’essere di fronte a un omaggio a quella gloriosa casacca, nulla più; coloro i quali attendevano una replica anastatica della divisa del 1992, resteranno verosimilmente delusi. L’armatura di capitan Lars Olsen e compagni era infatti pienamente nel solco della fantasia cromatica d’inizio anni Novanta: seguendo la prassi del tempo, la tradizionale maglia rossa danese era stata di fatto mutilata da Hummel, con l’aggiunta di marcati spazi bianchi che ammantavano spalle e fianchi, e di singolari maniche che incontravano una fitta palatura biancorossa; per non tacere di pantaloncini e calzettoni, forieri di dettagli neri.
Un’uniforme entrata nella storia, sì, ma forse troppo legata a quel decennio, forse troppo figlia del suo tempo per risultare ancora attuale, oggi. Sarà per questo che Hummel avrà scelto di guardare, più che altro, all’essenza di quella vecchia casacca, dando così vita a una divisa completamente nuova, ancorata al ricordo del passato ma aggiornata ai canoni moderni. 25 anni dopo, Christian Eriksen e compagni sono quindi scesi in campo, all’apparenza, con la loro consueta maglia nazionale, rossa con dettagli bianchi: ma l’occhio non può che essere rapito dalle due grandi sezioni bianche che presidiano le spalle — e inglobanti le iconiche frecce del marchio danese —, che quasi per gestalttheorie ci rimanda, pur non essendovene traccia, a quella divisa di cinque lustri addietro.
Nonostante il retaggio di un’epoca, a livello stilistico, tra le più destabilizzanti mai attraversate dal calcio, il resto della casacca è permeato da un generale senso di pulizia, in cui risalta l’elegante colletto chiuso da un elaborato scollo romboidale. La bordatura dorata applicata allo stemma federale tradisce l’intento celebrativo della divisa, rimarcato nella parte interna del tessuto dal motto, in inglese, #ShareLegends con cui nei mesi scorsi Hummel aveva dato il la all’operazione nostalgica, e dall’adagio emozionale, e per questo giustamente in danese, «en del af noget større» («parte di un qualcosa di più grande»).
Non mancano altri rimandi commemorativi in questa tribute jersey — come nel risvolto del colletto, in cui trova posto l’easter egg della silhouette della Coppa Henri Delaunay —, tuttavia il più grande omaggio a quell’affermazione continentale risiede in bella vista su busto e schiena, dove Hummel è andata a ripescare l’identico font Italic presente sulla casacca del 1992. Una scelta forse tutt’altro che casuale, dato che proprio questo dettaglio rappresentò una delle più grandi innovazione del tempo in ambito calcistico: dopo qualche sporadica sperimentazione in competizioni giovanili, Euro ’92 fu la prima competizione internazionale a introdurre la novità dei numeri sul petto, unitamente all’apposizione dei cognomi sulla schiena… in parole povere, visivamente, la nascita del calcio come oggi lo conosciamo.
L’unica differenza tra il font del 1992 e quello del 2017, l’unica concessione alla celebrazione, risiede nella sua struttura interna: al corpo pieno, oggi lascia spazio la minuscola e minuziosa elencazione di tutti i protagonisti del trionfo di 25 anni addietro. Simile grafia è stata applicata anche alla numerazione dei pantaloncini — qui in controtendenza rispetto all’uniforme del 1992 sopra cui, molto curiosamente, si registravano due diversi caratteri tra maglia e calzoncini! —; di fatto l’unico guizzo in un capo molto semplice e illuminato unicamente da una bordatura a contrasto, così come accade per i calzettoni tuttavia arricchiti, questi ultimi, anche da un rimando al Dannebrog all’altezza del rivolto. Ma in questa zona dell’uniforme — “riciclata” dall’attuale divisa danese vista nelle qualificazioni mondiali —, a farla da padrone rimangono essenzialmente le flèche Hummel.
Maglia portiere Danimarca 1992-2017
Se andiamo alla ricerca di una maggiore voglia di passato, di un più solido rimando a quell’ormai lontano trionfo, curiosamente dobbiamo volgere lo sguardo tra i pali della porta. Il giorno della storica finale, all’Ullevi Stadion di Göteborg, Peter Schmeichel respinse ogni attacco teutonico con indosso una iridescente divisa, decisamente difficile da far passare inosservata — per quanto, alla fine forse ben più sobria rispetto ai capi sfoggiati da alcuni suoi colleghi del tempo —, ulteriormente arricchita da un groviglioso reticolo che si snidava lungo busto e braccia.
Proprio questa caratteristica struttura esagonale, è stata ripresa quasi pedissequamente 25 anni dopo per vestire il giovane Frederik Rønnow, con la sola differenza del suo inserimento su di un completo all black tono su tono, che pur mantenendo un marcato legame col suo indumento d’origine, mostra ora uno stile più distinto e affine ai tempi moderni. Solo bordini e altri dettagli bianchi qua e la, sventano il timore di un capo fin troppo tetro.
Una maglia, quella di Rønnow, destinata a rimanere un esemplare unico, un sogno per tutti i collezionisti del mondo; al contrario della divisa biancorossa di Eriksen, seppur replicata in un’edizione limitata di 999 esemplari, verosimilmente già andati a ruba. Ma stavolta, l’aspetto commerciale è davvero l’ultima cosa che conta: ricordare quell’estate svedese, celebrare a soprattutto tramandare quell’incredibile impresa, sono stati il motore dietro a un’operazione che ci ha dato una divisa forse non fedele, forse non perfetta, ma sicuramente e ugualmente emozionante come poche.
Un’emozione, tanto ci basta.