Se ancora non sapevamo dove potesse arrivare la contaminazione tra calcio e politica, basta guardare alla prima giornata del campionato di Clausura cileno di sabato scorso per avere un’idea dello stato delle cose.
Il Club Deportivo Palestino, infatti, durante la partita contro l’Everton lo scorso 5 gennaio, ha deciso di scendere in campo con delle casacche in cui il numero “1” è stato sostituito con la mappa della Palestina che comprende anche lo Stato d’Israele. La nuova maglia è balzata subito all’onore delle cronache ai piedi delle Ande ed ha innescato un forte scontro verbale tra gli esponenti della società calcistica in questione e la comunità ebraica cilena.
Per capire il motivo di questa contesa (da questo momento in poi eventuali giudizi di natura politica sono assolutamente involontari dal momento che non ci riteniamo competenti in materia e fare speculazioni politiche non è lo scopo dell’articolo) e soprattutto senza entrare nel merito della questione medio-orientale, basti sapere che nel 1947 le Nazioni Unite, per risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei, approvarono il Piano di ripartizione della Palestina che proponeva la divisione dei territori palestinesi in due stati, uno arabo e uno israeliano. Di conseguenza la geografia politica di quei territori veniva modificata. Il j’accuse della comunità ebraica cilena, dunque, fa riferimento proprio a questo, ovvero che inserendo sulla maglia l’intera mappa dei territori medio-orientali esplicitamente non si riconosce l’esistenza dello Stato di Israele. E la polemica è presto innescata.
Gabriel Zaliasnik, avvocato ed ex presidente della Comunità ebraica in Cile, sfoga la sua indignazione con un tweet (al quale ne sono poi seguiti numerosi altri) in cui sottolinea come l’irresponsabilità della dirigenza del Club Palestino non ha precedenti e ha fatto sì che odio e violenza si siano istituzionalizzati nel calcio cileno
Alle parole di Zaliasnik fa eco la dichiarazione, dai toni più smorzati, di un altro esponente della comunità ebraica cilena, Gerardo Gorodischer, attuale presidente della Comunità ebraica cilena che ribadisce, sempre via Twitter, il rifiuto dell’importazione del conflitto medio-orientale in Cile e si aspetta delle sanzioni da parte della FIFA e della Federazione calcistica cilena nei confronti del club per aver violato codici dei regolamenti. “Sappiamo che la FIFA rifiuta questo tipo di azioni – ha proseguito in una intervista Gorodischer – e non si possono introdurre slogan politici all’interno del calcio, figuriamoci importare il conflitto medio-orientale in Cile usando il calcio come strumento di odio e bugia“.
Dal canto suo, la comunità palestinese (che in Cile conta più di 200.000 membri) si difende dalle accuse rifiutando l’ipocrisia di chi dà la colpa a questa mappa e allo stesso tempo parla parla di un territorio occupato in termini di territorio conteso.
Inoltre, il Palestino è una società di calcio fondata nel 1920 da un gruppo di emigrati palestinesi che decisero di utilizzare i colori sociali della bandiera del paese arabo per le loro divise (maglia a strisce bianche, rosse e verdi e calzoncini neri) e per questo motivo “i simboli palestinesi esistono in Cile già 28 anni prima che avvenisse la spartizione dei territori medio-orientali“, riprende il comunicato della comunità palestinese – senza contare che il governo cileno ha riconosciuto, nel 2011, l’indipendenza dello Stato Palestinese. La replica si conclude con l’attacco ai sionisti cileni accusati di inviare in Israele giovani cileni in modo che possano ricevere un addestramento militare.
La comunità ebraica, sentitasi oltraggiata da questa rappresentazione, ha fatto appello sia alla FIFA, mettendo in evidenza l’articolo del disciplinare in cui viene trattata la discriminazione (art.58), sia alla Federazione cilena, il cui regolamento all’articolo 38 fa riferimento al divieto di indossare simboli di carattere politico-ideologico da parte dei giocatori. Da qui la proposta di bandire la maglia dal campionato. Per adesso non ci sono state sanzioni da parte degli organi competenti. Di certo la spinosa questione israelo-palestinese si tinge, purtroppo, di una nuova nota polemica e lo fa contemporaneamente ai colloqui di pace portati avanti dagli Stati Uniti ad inizio mese. Ma soprattutto sconfina in una zona che dovrebbe essere per lo meno franca rispetto a queste vicende: ce n’era davvero bisogno?
Note a margine (ma non tanto):
– Gennaio 2009, l’allora attaccante del Siviglia, Frederic Kanouté, mostrò una sottomaglia che portava la scritta “Palestina” ripetuta in varie lingue: voleva manifestare la sua vicinanza alla popolazione palestinese a seguito dei raid israeliani su Gaza;
– Già nel 2002, il portiere del Deportivo Palestino, Leonardo Cauteruchi, indossò una raffigurazione della mappa della Palestina. Successivamente dichiarò che era un omaggio ad un popolo che soffriva la guerra e che quindi non aveva alcuna connotazione politica.
– Gennaio 2014, al giocatore israeliano del Vitesse, Dan Mori, viene proibito di entrare negli Emirati Arabi insieme alla sua squadra per disputare due partite amichevoli. Il difensore rimane in Olanda, mentre il resto della squadra parte per Abu Dhabi, dove le leggi nazionali dispongono che sia proibito mostrare la bandiera di Israele anche in eventi sportivi.
AGGIORNAMENTO del 20 Gennaio 2014
Alla fine, il Club Deportivo Ñublense ha presentato un’istanza presso il Tribunale disciplinare della ANFP (la Federcalcio cilena) tramite il proprio Presidente, Patrick Kiblisky (il quale, peraltro, fa parte della comunità ebraica cilena). La sentenza, pubblicata il 14 gennaio scorso, sottolinea come la Federazione Calcio cilena è “estranea alla attività religiose , politiche e, in generale, a tutto ciò che non sia direttamente correlata ai suoi obiettivi e allo sport”, aggiungendo che “vieta qualsiasi forma di discriminazione di tipo politico, religiosa, sessuale, etnico, razziale o sociale”.
Pertanto, il Tribunale disciplinare ha condannato il Deportivo Palestino al pagamento di una multa di 30 Unidades de Fomento (pari a circa circa 970 euro), suddivisa in tre rate da 10 UF ciascuno da pagare a ridosso delle prossime tre giornate del campionato di Clausura. Inoltre, la maglia non potrà più essere usata dal club nelle partite ufficiali. Di più, la denuncia presentata nei confronti del Palestino riguardava anche i giocatori che hanno indossato le uniformi: tuttavia, il tribunale disciplinare ha giudicato inammissibile questa istanza dal momento che il caso non è definito all’interno dei codici disciplinari.