Venticinque anni fa, il 9 novembre 1989, l’apertura di una frontiera chiudeva un pezzo di Storia. Crollava un Muro a Berlino e, assieme a esso, quell’invisibile barriera che per decenni sfregiò l’Europa. Da par nostro, celebriamo l’anniversario nella maniera che meglio conosciamo, parlando di maglie, attraverso le due squadre, Hertha e Union, che più di tutte vennero segnate da quell’invalicabile cortina. Uno sguardo al di qua e al di la del Muro, che inizia coi biancoblù dell’Ovest.
È la squadra più famosa della città, che dal 1892 porta in alto la bandiera del calcio berlinese. È l’Hertha, dalle inconfondibili casacche biancoblù, marchiate anche nella stagione 2014-2015 da Nike. Un legame ininterrotto ormai dal 1999, che ancora una volta ha generato una maglia nel solco della tradizione.
Lo sappiamo bene, parlare di “tradizione” sui campi teutonici è spesso azzardato, tuttavia l’Hertha è forse uno dei club che meno si accoda al turbinio stilistico del calcio tedesco. Per tifosi e semplici appassionati, la squadra della capitale è indissolubilmente a righe verticali bianche e blu, un template riproposto con successo anche in quest’annata.
Un kit che l’Hertha sfoggiava anche in quegli anni sessanta passati alla storia, in tutti i sensi. Nel 1961, quando la Vecchia Signora di Germania si ritrovò di fatto reclusa a Berlino Ovest, un’enclave capitalista all’interno della socialista DDR, dentro a un muro di mattoni e cemento che esulava dalla comprensione umana. Nel 1963 quando, nonostante tutto, la squadra riuscì a sopravvivere al corso degli eventi, prendendo parte alla storica fondazione della Bundesliga.
La nuova uniforme casalinga prende a piene mani dal passato, proponendo una classica palatura contraddistinta da un’ampia rigatura, persino più larga di quella ammirata dodici mesi fa. Sopra al cuore, come da qualche anno a questa parte, svetta il nuovo stemma che rifugge dalla vecchia bordatura circolare, per lasciare la bandiera biancoblù del club libera di stagliarsi sul petto.
Il colletto — un semplice girocollo che, nella parte interna, reca quell’orso simbolo cittadino fin dal 1280 —, e i bordini delle maniche sono bianchi, con una sottile finitura blu; in quest’ultimo caso sono a contrasto con le braccia, completamente monocromatiche. L’unica novità di rilievo è sulla schiena, dove il grande quadrato atto a contenere nomi e numeri passa da blu a bianco. Lo stesso font, per meglio risaltare, adotta un marcato blu navy.
Semplici pantaloncini blu e calzettoni bianchi, rispettivamente, con striscia e risvolti a contrasto, completano la canonica muta dei berlinesi.
Tutt’altra storia invece per la divisa da trasferta, che quest’anno si diverte a giocare proprio col suddetto completo casalingo, proponendone una singolare variante.
Le trasferte, giocoforza, furono i momenti più difficili per quella squadra intrappolata per quarant’anni in una nazione non sua — ventotto dei quali tra le tristi pareti di una grigia muraglia, solo parzialmente illuminata a Occidente dai tanti, colorati, graffiti di rivolta. L’aereo permetteva ai biancoblù di superare abbastanza facilmente i confini tracciati dalla politica, ma la Germania Est, e di riflesso l’Unione Sovietica, mal sopportavano tutto ciò che odorava di capitalismo, in primis le luci e la libertà di Berlino Ovest.
Negli anni sessanta e settanta, periodo in cui la guerra fredda era piuttosto rovente e l’Hertha partecipava stabilmente alle coppe europee, le sortite del club nei paesi del blocco orientale erano invariabilmente accompagnate da un non troppo velato clima d’ostilità… poca cosa rispetto a ciò cui andavano incontro i tifosi, loro malgrado ben più consci degli effetti del Muro sulla vita quotidiana.
L’attraversamento della frontiera in pullman era ogni volta un terno al lotto, con le guardie orientali che, sadicamente, spesso lasciavano transitare i sostenitori biancoblù solo dopo interminabili attese, quando erano certi che sarebbero arrivati a destinazione a partita già ampiamente iniziata. Schermaglie politiche che facevano capolino anche nello sport, al tempo mai così importante nello scontro tra i due blocchi.
Lontani ricordi, un quarto di secolo dopo, in una Berlino di nuovo capitale di tutta la Germania, e in una Bundesliga finalmente vero campionato nazionale. Lontano da quell’agglomerato di storia che è l’Olympiastadion, l’Hertha ha a disposizione una particolare divisa che, di fatto, va a ricolorare l’abito casalingo con le tinte neroblù.
Non è la prima volta che i giocatori berlinesi, fuori casa, vanno a vestire questi colori, facenti parte a tutti gli effetti della tradizione del club. La novità viene dall’abbracciare quest’insolito stile — che agli occhi meneghini, rimanderà in qualche modo all’Inter del 2013-14. Solo la bandiera che garrisce sul petto mantiene il canonico biancoblù mentre, volgendo indietro lo sguardo, il bianco di nomi e numeri risalta ampiamente sopra una base così scura.
Pantaloni e calze nere, con richiami blu navy, completano un abbinamento sicuramente d’impatto, ma che in alcune occasioni potrebbe rivelarsi fin troppo simile alla prima divisa, venendo quindi meno a quella che in fondo è la funzione basilare di una seconda casacca: distinguersi. Per tal motivo, la più popolare squadra della città dispone di una terza opzione nell’armadietto, che altri non è la vecchia away della scorsa annata.
Una maglia che, in qualche modo, ha fatto a sua volta la storia… calcistica dell’Hertha, contraddistinguendo quegli anni novanta che rappresentano ancora oggi uno dei migliori momenti, sportivamente parlando, dei berlinesi. Una casacca gialla contraddistinta da una rigatura verticale tono su tono, che a cavallo del terzo millennio segnò le notti europee dell’Alte Dame sotto i riflettori della Champions League.
Un decennio che ci riconsegnò una nazione di nuovo unita, una Berlino di nuovo grande. Il 27 gennaio 1990 era solo l’incipit di quella decade, con l’Est e l’Ovest che, ancora per pochi mesi, sarebbero stati due paesi diversi… ma fu anche il giorno in cui la città poté tornare a ribollire per il ritorno del derby più amato, sentito e tifato, quello tra l’Hertha e l’Union.
Una rivalità che, paradossalmente, quarant’anni di socialismo avevano trasformato in una salda amicizia tra i biancoblù dell’Occidente e quei lontani cugini biancorossi, che a Est ne avevano combinate nel frattempo di ogni pur di indispettire un regime che, col passare degli anni, si era sempre più scollato dalla sua gente, dalla logica, dalla realtà.
Un legame tuttavia effimero, che cadrà assieme a quel Muro che l’aveva inconsapevolmente cementato. Una rivalità che in breve rinascerà più accesa di prima, sospinta da una riunificazione — pardon, annessione — che, almeno sugli spalti, ha invece rimarcato ancor più le differenze tra Ossie e Wessie. Ma questa è un’altra storia, che dobbiamo ancora raccontare…
Prima, durante e dopo il Muro, l’Hertha non ha mai più raggiunto i fasti dei primi anni trenta, quando per le uniche due volte divenne la squadra più forte di Germania. Un club che ha tuttavia sempre onorato il nome di Berlino del calcio, in qualsiasi categoria e contro qualsiasi avversario — sportivo e non —, dimostrando alla Germania, al mondo, quanto la passione possa più di uno sciocco muro tracciato dalla politica.
Berlino, 25 anni dopo il Muro — Fine prima parte