Venticinque anni fa, il 9 novembre 1989, l’apertura di una frontiera chiudeva un pezzo di Storia. Crollava un Muro a Berlino e, assieme a esso, quell’invisibile barriera che per decenni sfregiò l’Europa. Da par nostro, celebriamo l’anniversario nella maniera che meglio conosciamo, parlando di maglie, attraverso le due squadre, Hertha e Union, che più di tutte vennero segnate da quell’invalicabile cortina. Uno sguardo al di qua e al di la del Muro, che termina coi biancorossi dell’Est.
È una delle squadre kult del pianeta, un mondo a parte nel calcio di Berlino e della Germania. È l’Union di Köpenick, quartiere che da quasi mezzo secolo ha fatto delle casacche biancorosse la sua più famosa bandiera.
Maglie marchiate nella stagione 2014-2015 da Uhlsport, e che anche quest’anno portano sui campi della Zweite Liga tutto quel misto di passione, nostalgia e simbiosi tra club e tifosi. Un qualcosa indescrivibile, che ha reso l’Union un luogo, senza mezzi termini, unico al mondo.
C’è chi meglio di altri sa cosa voglia dire ritrovarsi in un paese, dall’oggi al domani, letteralmente spaccato a metà. Per esempio chi, quel 13 agosto 1961, vestiva la divisa dell’Union. L’odierna società reca il 1966 come data di nascita, ma in realtà affonda le sue radici nel 1906 quando a Oberschöneweide, quartiere orientale della capitale tedesca, sorse l’Olympia colorato di biancoblù.
La formazione, che prese presto il nome di Union Oberschöneweide, trovò il tempo di giocarsi la finale nazionale nel 1923, prima di venir travolta dalla seconda guerra mondiale. A conflitto sedato, in una Berlino distrutta dalle bombe e spartita a tavolino tra gli Alleati, la guerra fredda impiegò poco a deflagrare: coi confini già ostaggio di un’invisibile cortina di ferro, nel 1949 parte della squadra riuscì a fuggire all’Ovest, dove tutt’oggi porta avanti la sua storia sotto nuove insegne.
A Berlino Est rimase una società indebolita in tutti i sensi, imprigionata in una nazione che non sentiva più sua, e che da lì a un decennio sarà ancor più oppressa da un Muro troppo alto da poter scavalcare, troppo grigio per poter sognare. In quel progetto di socialismo che fu la DDR — un progetto, a ben vedere, fin troppo simile a una dittatura — il calcio non rimase immune da una classe politica che vide lo sport, più che altro, come un facile strumento del consenso.
Alla metà degli anni sessanta, quella vecchia società di Oberschöneweide diventò l’Union che conosciamo. Un club, come tutti quelli della Germania Est, dal forte controllo statale. Gli Eisernen diventarono la squadra del sindacato, abbandonando il blu per vestire da lì in avanti di biancorosso. Due tinte che hanno attraversato la Storia con la “S” maiuscola, e che nel terzo millennio fanno ancora fremere gli spalti dell’Alte Försterei.
In fatto di maglie, a differenza dei cugini dell’Hertha, l’Union non ha mai avuto qualcosa di iconico da indossare all’infuori dei suoi colori, forse anche per l’esigua epopea societaria che non supera il mezzo secolo di vita.
Uhlsport, al quarto anno con gli orientali, ha optato stavolta per una divisa casalinga contraddistinta da un ampio palo bianco sul lato sinistro, che rompe la monotonia di una casacca rossa dando al contempo risalto al caratteristico stemma societario.
A dispetto dell’apparente semplicità dell’uniforme, questa mostra tuttavia una discreta attenzione ai dettagli — ravvisabile nella fattura del colletto, con uno scollo a V ornato da discreti lembi, e nei calzettoni, recanti una fascia a contrasto assieme al motto societario cucito sugli stinchi.
Il succitato colletto, nella zona posteriore riporta un omaggio allo stadio di Köpenick, mentre all’interno una fascia tergisudore gialla esplicita i sentimenti di tutti i tifosi — «Il nostro orgoglio, il nostro club, il nostro amore, la nostra squadra». Una divisa semplice ma personale, fortemente identitaria per quella che è la serie cadetta tedesca.
Soprattutto, un completo che esalta ambedue i colori dell’Union, che nella Oberliga della Germania Est divennero in breve la nemesi di quel vinaccia che invece contraddistingueva i concittadini della Dynamo: era il derby della Berlino orientale, una sfida che andava ben al di là del lato sportivo.
La Dynamo era la squadra del potente ministro Mielke, di quella Stasi che financo a poche ore dall’apertura delle frontiere soggiogò senza vergogna un intero popolo. Era, insomma, la squadra che “doveva” vincere, sempre e contro tutti. Tra i pochi che ebbero il coraggio di non abbassare mai la testa, c’era proprio il piccolo Union.
I biancorossi divennero ben presto qualcosa di decisamente scomodo per la nomenklatura della DDR, soprattutto per quei supporter che rappresentavano uno dei più visibili simboli dell’opposizione al regime. Una scelta che, a quel tempo e in quel luogo, voleva dire mettere in gioco la propria stessa vita.
I Vopos, gli uomini della temuta polizia militare che errava di là del Muro, ebbero il loro bel da fare per tenere a bada una tifoseria che accolse gran parte di quei giovani berlinesi in cerca di un simulacro di libertà: entrare a far parte degli Eisernen equivaleva ad abbracciare quella resistenza a uno status quo che pareva incrollabile.
L’Union degli anni settanta e ottanta, all’apice dell’avversione verso la classe politica orientale, andava in trasferta sospinto da quelli che non esitiamo a definire hooligan d’oltrecortina, contaminati consumisticamente da nascenti sottoculture anglosassoni come il punk, e per tal motivo all’indice della repressione.
Oggi, per fortuna, tifare biancorosso non equivale più a una scelta politica, di vita, ma solo di sana passione sportiva. Andare dall’altra parte di Berlino non è più un sogno irrealizzabile, così come non lo è viaggiare in una Germania di nuovo unita. Dopo venticinque anni, l’andare in trasferta con l’Union ha perso quel retrogusto ribelle, ma non il calore di una tifoseria che fa invidia a squadre ben più ricche e blasonate.
Quest’anno, anche lontano dall’Alte Försterei, il tifo Köpenick può continuare a fremere per i suoi storici colori. Uhlsport ripropone infatti le due tinte del club anche per la away, qui con una netta predominanza del bianco. Rispetto alla home, l’uniforme di cortesia tradisce tuttavia una minore originalità, attingendo a un template standard che l’azienda tedesca ha distribuito tra varie sue squadre.
Un pattern formato dalla silhouette di tanti, piccoli, rettangoli, nella parte alta della maglia è l’unico segno di stile visibile sopra questo capo, completamente lindo eccetto per un girocollo e dei bordini rossi a contrasto. Troviamo invece il nero fare capolino sulla schiena, per pittare nomi e numeri.
Completano l’opera dei pantaloncini al limite della semplicità se non fosse per un invisibile accenno, sul lato sinistro, alla sopracitata fantasia geometrica. Poco più curati i calzettoni, di fatto il negativo di quelli già visti sulla muta casalinga.
Lo stesso template è stato riservato ai portieri dell’Union, in diverse colorazioni. Unico cambiamento rispetto ai giocatori di movimento, le maniche lunghe e l’imbottitura nella zona dei gomiti; due dettagli diventati rari a vedersi nel calcio contemporaneo, un azzardo quasi vintage, che sanerà forse in parte i rimpianti dei nostalgici…
Proprio la nostalgia — o meglio, ostalgia — è ciò che oggi caratterizza gran parte di questa piccola società berlinese. Beninteso, nessuno sente la mancanza di quel Muro… a Est tutti sognavano l’Ovest, compresi quei tifosi biancorossi che, per indispettire i Vopos, solevano inneggiare pubblicamente e irriverentemente ai biancoblù dell’Hertha.
La guerra fredda cementò un’amicizia per corrispondenza tra gli Eisernen e l’Alte Dame, all’epoca entrambi uniti dalla speranza di una città di nuovo unita.
Nell’odierna Berlino, capitale di una sola Germania, l’Union è un club che ha abbracciato in toto la nuova realtà. Tuttavia, nell’ultimo quarto di secolo ha avuto modo di germinare un forte legame verso quel tempo che non c’è più.
Un luogo, la DDR, che pur con tutte le sue contraddizioni, per quarant’anni ha fatto parte delle vite di coloro che, per noi, erano “gli altri”. Giorni apparentemente spazzati via la notte del 9 novembre 1989, ma che quella gente non ha invece voluto dimenticare.
Una moderna struttura dirigenziale e delle azzeccate invenzioni di marketing (come trasformare lo stadio in un salotto da guinness dei primati) non hanno intaccato l’originario spirito ribelle del club, tuttora indomito anche in un paese unito e libero. La Repubblica Democratica Tedesca non è stato il miglior posto nel mondo, ma era una nazione in cui tanti, nel bene e nel male, avevano creduto. Che ha fatto parte dell’esistenza di tutti gli Ossie.
Negli ultimi cinque lustri l’Union è divenuto uno dei baluardi cui i berlinesi dell’Est si sono stretti, alla ricerca di quel briciolo di dignità per un vivere quotidiano troppo presto cancellato, quasi fosse uno scomodo ingombro, dai luccicanti neon dell’Occidente.
Proprio il pericolo di essere fagocitati dall’Ovest, i “vincitori” della Storia, ha probabilmente spinto gli Eisernen a rimarcare ancor più il loro passato, a non dimenticarlo mai. Li ha spinti nuovamente contro i Wessis, l’Hertha, in un ritrovato derby che sembra riportare le lancette dell’orologio indietro di venticinque anni.
L’Union è tutto questo. Una squadra che ha combattuto quarant’anni contro uno stupido Muro, e combatte oggi per preservare le sue origini, la sua storia, la sua essenza. Un club mai conformista, fortemente identitario e sempre più unico al mondo. Senza trofei da sollevare o campioni da invidiare, ma con uno spirito che non morirà mai.
Berlino, 25 anni dopo il Muro — Fine seconda e ultima parte