Entrando in un bizzoso autunno di cui ci apprestiamo a vivere i primi scampoli, non possiamo non tornare a soffermarci su quello che è stato, indubbiamente, l’apice dello sport tricolore in questo 2014. È ancora nei nostri occhi l’immagine di Vincenzo Nibali che, dopo sedici anni d’assenza, fa risuonare le note dell’inno italiano sugli Champs-Élysées di Parigi.
Vincendo da dominatore alla Grande Boucle, a ventinove anni lo Squalo è definitivamente entrato nella storia del ciclismo, scrivendo il suo nome accanto a quelli di Pantani, Gimondi, Nencini, Coppi, Bartali e Bottecchia, gli unici italiani ad aver fatto loro quella maglia gialla inseguita per un’intera carriera.
Ancor più, il siciliano è entrando nel ristretto circolo della Tripla Corona, assieme a leggende come Anquetil, Merckx, ancora Gimondi, Hinault e il rivale dei giorni nostri, Contador. I soli sei che, in oltre un secolo di corse prima sulle strade bianche e poi sull’asfalto, sono stati capaci di mettere in bacheca tutti e tre i Grandi Giri.
Vuelta 2010, Giro 2013 e Tour 2014, per quello che nell’ultimo lustro si è dimostrato il miglior ciclista al mondo nelle corse a tappe. Niente male per quel ragazzo di belle speranze partito di casa a quindici anni, da Messina alla volta della Toscana, per inseguire il suo sogno in una terra storicamente intrisa dal gene della bicicletta.
Una maglia impregnata di storia
Come se non bastasse, a tutto ciò si aggiunge un altro primato, che tuttavia in pochi hanno scovato poiché Nibali è stato, diciamo così, molto bravo a “nascondere” fin dalle prime tappe della carovana transalpina.
Con diciannove giorni di giallo vestito, il mondo ha imparato a conoscere Vincenzo con questa casacca, prestando poca attenzione a cosa c’era sotto… un particolare che invece non è sfuggito agli appassionati della disciplina, per una divisa che tuttora fa decisamente discutere.
Lo Squalo dello Stretto, questo il suo storico soprannome, è infatti divenuto il primo campione italiano a giungere a Parigi da trionfatore. Un risultato mai riuscito neanche a un mito come Coppi: il Campionissimo aveva da par suo già centrato quest’accoppiata, ma nel 1949 la prova nazionale si svolse solamente a ottobre…
Nibali si è invece presentato al via del Tour vestendo la sua prima maglia tricolore, conquistata pochi giorni prima tra le montagne trentine. Una divisa storica, tra le più famose in ambito ciclistico, per un titolo che, pur non godendo più dei fasti di un tempo, mantiene un fascino indissolubile e difficilmente cancellabile.
In una competizione che tocca ormai ben tre secoli, il milanese Giuseppe Loretz fu il primo campione italiano della storia, nel lontano 1885. Non vi è invece certezza, come in altre competizioni ciclistiche, circa l’adozione della casacca celebrativa del primato, verosimilmente creata nelle prime decadi del Novecento.
Fu Costante Girardengo, con le sue nove affermazioni consecutive dal 1913 al 1925, a rendere immortale questa maglia, un dominio che neanche la lunga pausa della Grande Guerra seppe minare.
Nel corso dei decenni si susseguirono i campioni, da Binda a Guerra, da Magni a Baldini, da Moser a Saronni, da Bugno a Cipollini (e tanti altri ne dobbiamo tralasciare…), tutti a rimpolpare l’albo d’oro nazionale.
Cambiava nel frattempo tutto, le epoche, le strade, le biciclette, l’allenamento, le divise, le tattiche di gara… tutto, tranne una cosa: il simbolo della vittoria, quella maglia tricolore che per quasi un secolo parve un dogma imprescindibile e, soprattutto, intangibile.
Un ciclismo che cambia
Le cose incominciarono a mutare col nuovo millennio, quando la spallata decisiva arrivò dal tintinnare dei denari. Già a cavallo degli anni ottanta e novanta, infatti, la presenza degli sponsor aveva incominciato a farsi più invasiva sulle divise ciclistiche.
Beninteso, parliamo di una disciplina che si appoggia alla pubblicità fin dalla nascita, quando le squadre erano in pratica emanazione diretta delle aziende di biciclette e di tutto il loro indotto.
Tuttavia, sul finire del Novecento, le semplici e quasi austere maglie del passato dove svettava unicamente il lettering dello sponsor, grazie ai nuovi materiali e tecnologie iniziarono a permettersi delle grafiche sempre più elaborate e fantasiose, a tutto vantaggio dei marchi pubblicitari che videro così aumentare esponenzialmente le occasioni di visibilità.
Ciò non valeva tuttavia per un particolare ambito, quello delle maglie distintive di un dato primato, in cui ricadevano le divise di campione nazionale e, di conseguenza, anche quella tricolore. Tutto, all’inizio, avvenne molto lentamente…
Ancora all’inizio del terzo millennio, storiche squadre come Mapei, Saeco e Quick Step iniziarono a modificare lievemente il disegno della casacca biancorossoverde per meglio integrare i loghi dei vari sponsor e fornitori, ciò nonostante senza andare a intaccare lo stile di base dell’uniforme.
Il vero Big Bang arrivò sul finire del decennio. Quella decade segnò, di fatto, la vera internazionalizzazione del ciclismo, uno sport che fin lì era invece rimasto, per oltre cento anni, fortemente radicato alle sue origini europee.
Stiamo volutamente semplificando poiché, arrivati agli anni duemila, le gare ciclistiche venivano già da tempo organizzate e disputate ai quattro angoli del globo; tuttavia, il fulcro della disciplina – inteso come serbatoio di ciclisti, appassionati e, soprattutto, finanziatori – era ancora appannaggio quasi esclusivo del vecchio continente.
Oggi, invece, nessuno si sorprende più nel vedere in gruppo corridori provenienti dall’Australia o dal Giappone, messi sotto contratto da squadre che pescano i loro fondi in Russia o in Sudafrica… allo stesso modo, non è più un tabù per un ciclista italiano, tantopiù se famoso e affermato, vestire la maglia di un team straniero, una scelta che fino all’inizio del nuovo millennio era invece considerata più unica che rara.
In un certo senso, potremmo dire che proprio la storica “forza” del movimento italiano — intesa come squadre e sponsor — fece sì che per tutto il Novecento la casacca tricolore fosse, strenuamente, difesa: nessuno voleva macchiarsi dello sfregio di un qualcosa inteso, dagli appassionati a due ruote, alla stregua di un simbolo patrio.
La situazione attuale, ahinoi, è ben diversa. Vuoi la crisi, vuoi semplice disinteresse dettato dai più disparati motivi, quella che è una delle culle storiche del ciclismo ha quasi abbandonato il suo figlio prediletto.
L’Italia continua a essere una delle più importanti “scuole” del movimento, una fucina unica di talenti e maestranze, con gruppi sportivi grandi e piccoli disseminati dalle Alpi alle Sicilie… ma sono lontani i tempi in cui le nostre squadre dettavano legge ai vertici. Un’epoca d’oro riassumibile in un’istantanea, l’arrivo in parata dell’invincibile Mapei alla Roubaix del 1996.
Tempi lontani, ormai. Il moderno ciclismo trova oggi casa in qualunque angolo del globo, e la passione ha da tempo lasciato il passo al business.
Passione italiana, interessi kazaki
Giocoforza, l’andare a battere terreni mai esplorati prima dai raggi della bicicletta, comporta il doversi confrontare con personalità che poco o nulla sanno dello storico retaggio della disciplina, dei suoi miti, dei suoi simboli.
Spesso, chi oggi apre il portafogli viene da nazioni dove la tradizione ciclistica è pericolosamente vicina allo zero, investendo nella sport più che altro per mero tornaconto personale. Coloro a digiuno di tutto ciò, inevitabilmente sono più restìi del solito a farsi da parte per un’ingombrante maglia concepita oltre cento anni fa…
È lo scotto da pagare in uno sport che da tempo ha perso la sua affascinante aura eroica, a fronte di un necessario quanto inarrestabile sguardo al futuro che, tuttavia, non può non lasciare un briciolo di malinconia per il tempo che fu. Oggi siamo invece qui a constatare la caduta di ogni barriera e campanilismo.
Nibali e compagni hanno trovato la loro personale via della seta in Kazakistan, un paese dove, prima dei successi di Alexander Vinokourov, la bicicletta era considerata un semplice mezzo di trasporto e niente più.
Proprio sulla scia dei successi di “Vino”, nel 2006 alcune tra le maggiori aziende dell’ex provincia sovietica diedero vita all’Astana; un team creato ad hoc per il più importante traguardo sportivo della storia kazaka, in un parterre a due ruote che, nel pieno dell’era degli scandali-doping, vedeva sponsor e squadre darsi alla fuga dal giorno alla notte.
Fin dalla sua immagine coordinata — dove prende a prestito il nome della capitale, l’azzurro e l’oro della bandiera kazaka, e due simboli nazionali quali l’aquila della steppa e il sole dorato —, la formazione si è caratterizzata per una spiccata componente nazionalistica, che finisce quasi per fagocitare i marchi pubblicitari presenti sulle divise.
Ciò può apparire in netta contraddizione con l’imperante pubblicità che regna nel resto del gruppo; in realtà l’Astana è, di fatto, il “biglietto da visita” del Kazakistan nel mondo, cercando attraverso lo sport di favorire interesse e investimenti verso il paese transcontinentale — che, come tante altre ex repubbliche del blocco orientale, continua a tradire dei forti lati contraddittori agli occhi dell’Occidente.
Il sostegno diretto della presidenza kazaka, che nel 2012 ha inquadrato il team ciclistico nel più vasto progetto dell’Astana Presidential Sports Club (con legami nel calcio, basket, hockey, pugilato, motori, ecc…), ha reso ancor più smaccata l’operazione.
L’Astana che vede oggi Vinokourov non più in sella, ma a bordo dell’ammiraglia, conta comunque una nutrita enclave italiana al suo interno, sia nella squadra dei ciclisti che in quella dello staff tecnico. Insomma, un legame italo-kazako all’apparenza inconciliabile ma che, invece, negli ultimi anni, ha dato decisamente i suoi frutti grazie a uno Squalo venuto dal Mediterraneo.
Compromesso, ma non troppo…
Scavando nel profondo, potremmo tuttavia parlare più d’un matrimonio d’interessi, dato che l’identità eurasiatica del team non è mai stata in discussione. E in questo senso, quando lo scorso 28 giugno Nibali ha tagliato per primo la linea d’arrivo del Trofeo Melinda, andando a vestire per la prima volta la maglia tricolore, nell’ufficio marketing dell’Astana immaginiamo non debbano aver fatto salti di gioia…
Come poteva proprio Vincenzo, l’uomo di punta della squadra per l’imminente ribalta mondiale del Tour, affrontare le strade di Francia con dei colori che nulla hanno a che vedere col Kazakistan?
La cosa, inversamente, deve però aver destato anche la nostra Federazione Ciclistica che, come abbiamo visto, già nell’ultimo decennio ha visto depauperato sempre più il significato della storica casacca biancorossoverde.
Cosa fare quindi, per scansare l’ennesima mortificazione del massimo simbolo ciclistico del Bel Paese? Come evitare che l’ennesimo campione nazionale portasse in strada una divisa che, di italiano, il più delle volte ha francamente ben poco?
In questo senso, nella prima parte del terzo millennio abbiamo assistito a due, precisi, orientamenti. Per le formazioni di secondo piano, o per corridori non avvezzi (o non più) alle luci della ribalta, la maglia tricolore è ancora un forte vanto, e il portarla in gruppo è considerato uno dei massimi onori della carriera.
Di contro, nel caso l’uniforme finisca addosso a un corridore di rilievo nonché tra le punte di un team di primo livello, il capo sportivo diventa, detto in soldoni, un mero impaccio alla visibilità degli influenti e munifici marchi pubblicitari, che malvolentieri vorrebbero veder sminuito il loro impatto visivo…
Nella querelle, vista la prossimità dell’appuntamento in terra transalpina, le rispettive diplomazie devono aver da subito iniziato a intessere una fitta corrispondenza, culminata in un disegno che desse eguale dignità a entrambe le identità.
Una scelta cui pensiamo abbia spinto lo stesso Nibali il quale, a differenza di altri colleghi, ha invece mostrato per il titolo di campione nazionale un entusiasmo, e soprattutto un rispetto, che da tempo latitava tra i big del nostro ciclismo.
La Federazione Ciclistica Italiana dopo aver preso atto della perplessità manifestata dal Team Astana sull’opportunità di porre il logo della squadra, che mira a promuovere l’immagine nazionale dello stato kazako, all’interno del tricolore italiano (nella fascia centrale di colore bianco) ha approvato, in accordo e su proposta della squadra stessa […] la maglia che il nuovo Campione Italiano su strada, Vincenzo Nibali, vestirà.
Considerando che la Maglia Tricolore proposta dal Team di appartenenza dell’atleta è risultata sostanzialmente compatibile nelle sue caratteristiche con quella approvata dalla Federciclismo […], la Maglia di Campione Italiano rispetta l’identità nazionale dei due stati, Italia e Kazakistan, oltre all’integrità dei loro simboli identitari: il tricolore italiano, i colori e i simboli della bandiera kazaka e della capitale Astana.
— Federazione Ciclistica Italiana / Astana Pro Team, 3 luglio 2014
La casacca tricolore della FCI, «vista l’estrema urgenza determinata dall’imminente partenza del Tour de France», è stata così spogliata del canonico template che Castelli Cycling, negli ultimi anni, aveva solo attualizzato ai tempi — con maniche monocolore, e un effetto “pennellato” applicato alla fascia bianca. Ne è risultata un’uniforme solo all’apparenza (come vedremo poi) nuova di zecca, che si presta giocoforza alle più varie obiezioni.
Il comunicato stampa emesso è sintomo di quanto la questione sia stata spinosa e difficile da dirimere. A riprova di ciò, nient’affatto teneri sono stati i commenti della gran parte degli appassionati, quando lo Squalo ha mostrato per la prima volta ai suoi tifosi la divisa che indosserà nei prossimi dodici mesi.
Quale identità?
Quindi, una maglia bocciata a priori? Non è proprio così. A tutte le rimostranze circa la presunta, latente, “italianità” di questa creazione, ha indirettamente risposto lo stesso Vincenzo pubblicando in un tweet una foto di Carlo Franceschi, suo direttore sportivo negli Under-23 e già campione nazionale tra gli Allievi nel lontano 1963.
Non senza sorpresa, scopriamo come già all’epoca la fascia tricolore fosse in auge, alla faccia di qualsiasi, presunto, “Hungarian Style” de’ noantri! Con il verde inserito in alto e il rosso in basso — come correttamente prescrive la vessillologia — a cingere il bianco, ecco sbucare dal passato una striscia colorata che ammanta il tutto di un’innegabile italianità.
Una scelta non dissimile da quella cui ha optato Nibali (e in precedenza Visconti, Pozzato…), pur con tutti i distinguo del caso: cinquant’anni son passati e oggi, sopra la divisa Astana, le tinte italiche devono convivere con quelle kazake. Ubi maior minor cessat.
Tuttavia, stavolta si è riusciti a tirar fuori un design che può piacere o meno, ma che di base rende giustizia a entrambe le fazioni in campo, senza che l’una prendesse il sopravvento sull’altra. Un gioco di equilibri che ci mostra un team fiero delle sue origini kazake, e un ciclista altrettanto orgoglioso del suo titolo di campione nazionale.
Ovviamente, il risultato finale non ha potuto incontrare il favore di tutti. Tanti avrebbero voluto vedere una maglia prettamente tricolore, esclusivamente italiana. Una presa di posizione più che lecita, la quale ci fa in qualche modo rimpiangere le casacche nazionali di una volta, subito riconoscibili in mezzo al gruppo, e invece oggi quasi fagocitate dai colpi della variopinta pubblicità.
Un bombardamento commerciale cui, nel 2012, si ribellarono Nacer Bouhanni e la FDJ. Al connubio francese riuscì un affascinante anacronismo, riavvolgendo le lancette della storia e rispolverando la vecchia, storica, divisa tricolore transalpina.
Un’unione d’intenti volta a esaltare al massimo il loro drapeau français, per una maglia colorata solamente di bleu, blanc et rouge. Un ritorno all’epoca eroica dello sport, ma anche un’eccezione destinata a rimanere tale, dettata forse anche da un certo sciovinismo…
Proprio l’orgoglio transalpino ci porta alla conclusione di questo lungo racconto, che si accomiata quindi con un’ultima considerazione: qual è la nostra identità? Siamo decisamente un popolo originale, noi italiani: a dispetto del verde, bianco e rosso che garrisce al vento, ci sentiamo davvero fieri solo se ammantati dall’azzurro.
È soprattutto nello sport che la nostra bandiera diventa, paradossalmente, un elemento a noi estraneo. Per atleti e tifosi è infatti il drappo dei Savoia l’unico, imprescindibile, carattere identitario; quello che dà forza alle gesta dei nostri sportivi, quello che incute timore negli occhi dei nostri avversari.
Nel resto del mondo, invece, dal Columbus Day in giù, sovente veniamo visti da principio come verdebiancorossi — un’etichetta cui solo gli azzurri del calcio sono forse riusciti ad affrancarsi. L’ossessivo uso di quelle tre tinte è un qualcosa che, obiettivamente, ai nostri occhi appare “italiano” quanto un caffè da Starbucks, o un trancio da Pizza Hut.
In questo senso, la casacca tricolore del ciclismo diventa davvero una rarità in casa nostra, probabilmente uno dei pochi simboli sportivi che mette al centro il nostro vessillo, spesso bistrattato e dimenticato, ma che dal 1797 continua imperterrito, a dispetto di tutto, a segnare il cammino della penisola.
Come tale, sarebbe forse il caso di preservare e tramandare questa casacca così com’è sempre stata, nulla di più e nulla di meno. Una semplice maglia colorata, che ha reso epico il nostro ciclismo e leggendari i nostri campioni.