Diciamoci la verità: di bel calcio, azioni manovrate, schemi e menate varie, in fin dei conti, al malato di tifo poco importa… per chi vive il pallone come una religione, e ha nella propria squadra l’unica incrollabile fede, non esiste altra soddisfazione che portare a casa i tre punti.
E chissene se la vittoria arriva a pochi secondi dal triplice fischio: anzi, tanto meglio! Ancor maggiore diventa la libidine, magari perfino sublimata da un “gollonzo” di gialappiana memoria o, perché no, da un’insperata magia estratta chissà come dal cilindro.
Se poi quest’incredibile hole-in-one arriva a un passo dalla lotteria dei rigori e da un trofeo da assegnare, allora siamo ai limiti di un’estasi che ogni singolo tifoso sulla Terra vorrebbe vivere, ma che raramente arriva a illuminare un’esistenza dedicata al Dio Eupalla. Ma se arriva, allora ti sbatte in faccia un crogiolo di emozioni difficile a staccarsi dalla pelle di chi le vive, e destinato a fondersi nel DNA dei tifosi per i decenni a venire.
Frangenti indelebili, che solo pochi fortunati sono destinati a raccogliere e farli per sempre propri. Tanti di loro vivranno sicuramente in Aragona dove, ancora dopo vent’anni, è più che mai vivo il ricordo di una delle notti più dolci della storia dei Blanquillos. Un momento assurto a imperitura fama grazie a quattro, semplici, parole.
— Il gol del secolo —
Quello del Real Zaragoza, pur non appartenendo alla tradizionale élite spagnola — e di conseguenza, continentale —, è un nome riuscito ugualmente a ritagliarsi un suo spazio, una sua dignità, in mezzo a nomi ben più altisonanti. Una squadra che oggi langue in Segunda División, a caccia di quello scatto per un posto nei play-off, per tornare a calcare il palcoscenico più prestigioso.
Ma anche una squadra che, nel suo dipanarsi, ha saputo ogni volta sfruttare al meglio quegli spiragli che la gloria ha lasciato aperti alle casacche biancoblù. È quel che accadde negli anni ’90, l’ultima epoca d’oro di un club che, nel suo piccolo, ha saputo cogliere un momento su tutti rimasto — dopo vent’anni, possiamo dirlo — nella storia del calcio.
L’undici saragozzano, allenato dal giovane enfante prodige Víctor Fernández, all’inizio del decennio era tra le più rampanti formazioni iberiche: fatta propria nel 1994 la loro quarta Coppa di Spagna, c’era adesso una Coppa delle Coppe ad attenderli, per inseguire un sogno che in casa biancoblù si fermava a qualche lontano ricordo in bianco e nero. Un sogno che il Real Zaragoza, un anno dopo, arrivò a giocarsi sul prato del Parco dei Principi contro i detentori dell’Arsenal, contro Seaman, Adams, Wright e Parlour.
Nomi che hanno segnato un decennio di calcio europeo, ma che quella sera non riuscirono a mettere in soggezione una squadra decisa più che mai a raggiungere la vetta (ineguagliata) della loro storia. Trascinatore degli spagnoli era Mohammed Alí Amar, per tutti Nayim; un ragazzo di Ceuta che, a dispetto delle origini nordafricane, ben conosceva i Gunners, reduce com’era da un lustro con un’altra maglia biancoblù addosso, quella del Tottenham.
Con il Tottenham avevo affrontato l’Arsenal per cinque anni e ricordavo che giocava sempre con la difesa alta, mentre il portiere faceva da libero. Quindi, prima della gara ho detto ai compagni e al mister che dovevamo provare a segnare da metà campo…
—Nayim, 2015
Proprio nei derby di Londra l’offensivo mediocentro aveva avuto modo di studiare da vicino gli schemi di una compagine, da qualche mese, nelle mani di Stewart Houston, ma che ancora seguiva la filosofia dello storico coach George Graham: ancora era impresso a fuoco il marchio di una difesa molto alta in cui l’estremo difensore David Seaman — i “baffoni” più famosi degli anni ’90, sportivamente parlando — agiva praticamente da libero aggiunto, spingendosi sovente fuori dai pali.
Una “falla” che non era sfuggita a Nayim, tanto da istruire dettagliatamente i suoi compagni di squadra prima della finale di Parigi. Nessun timore reverenziale per il Real Zaragoza che, dopo un primo tempo a reti inviolate, passò avanti a venti minuti dal termine con Juan Esnáider — ancora lontano dall’ectoplasma poi ammirato (loro malgrado…) dai tifosi juventini —, vedendosi tuttavia raggiungere sul pari pochi minuti dopo da un John Hartson al culmine della sua effimera esperienza in quel di Highbury.
Già nei 90′ regolamentari Aragón, memore dei consigli di Nayim, era andato vicino a pescare il jolly dalla lunga distanza, senza che ciò potesse evitare dei supplementari che, scanditi dall’inesorabile tic-tac delle lancette, parevano solo uno straziante preambolo verso la lotteria del dischetto. Mancavano davvero pochi attimi prima che la giacchetta nera Ceccarini portasse il fischietto alla bocca, quando uno dei ventidue in campo si ribellò a una finale decisa dalla sorte.
Quell’uomo raccolse una palla respinta dalla retroguardia inglese e, pur trovandosi poco oltre la metà campo, scagliò un destro a campanile (vedere per credere) indirizzato verso la porta avversaria… un tiro che Seaman poté solo sfiorare con le dita, infilandosi in quella rete dove lui stesso, molto simbolicamente, rimarrà imprigionato. Quell’uomo era Nayim, che colse l’attimo regalandosi un momento d’immortalità lungo quaranta metri. Semplicemente, el gol del siglo.
— Vent’anni dopo —
Sono passati due decenni da quel 10 maggio 1995. Un tempo relativamente breve nel vivere comune, neanche lo spazio di una generazione; calcisticamente parlando, invece, siamo forse di fronte a un’era geologica. Tante cose sono cambiate in quel di Saragozza, negli ultimi due decenni. È ormai ingiallito il ricordo della squadra che lottava ad armi pari con Real Madrid, Barcellona e i top club del continente… In momenti come questi, di magra se non difficili, è la natura umana stringersi assieme nel ricordo di qualcosa che ci rese felici.
In questi ultimi vent’anni nessun tifoso biancoblù ha dimenticato quella notte oggi tornata alla ribalta, quasi fosse un prezioso amuleto, a sospingere la squadra nel momento decisivo della stagione, nella rincorsa al palcoscenico più ambito. Un altro 10 maggio, stavolta del 2015, è la data in cui sul prato della Romareda è ricomparsa la maglia di quel trionfo. Non proprio la stessa, ma quasi… la celebrazione della più celebre maglia saragozzana, diciamo così, e di tutti gli uomini che fecero l’impresa.
Due decadi fa il club spagnolo era vestito da Puma che, a dispetto delle pazzie stilistiche di quel decennio, partorì una divisa piuttosto semplice e quasi minimale, nel solco della tradizione: maglia completamente bianca, pantaloncini completamente blu. L’unico vezzo di stile era ravvisabile nella chiusura a bottoni del colletto, esaltata da una piccola e quasi invisibile simil-gorgiera tono su tono. Insomma, una casacca che sarebbe presto finita nel dimenticatoio se non fosse stato per quella Recopa un tempo così gloriosa, ma oggi quasi sconosciuta all’appassionato più imberbe.
A colmare tale lacuna hanno provveduto quelli di Mercury, concittadini dei Blanquillos e che pertanto ben conoscono l’importanza di quanto avvenuto in quella lontana notte parigina. Il risultato finale è infatti la fedele replica di quella storica maglia, solo innovata in alcuni aspetti secondari. Il più evidente è lungo tutto il busto, dove la trama del tessuto reca impressi a mo’ di pattern i nomi di tutti i protagonisti che tornarono vittoriosi dalla Ville Lumière.
Al centro del petto svetta anche una speciale patch commemorativa «Recopa Paris 1995», azzurra con dettagli dorati e argentati, mentre un’ulteriore celebrazione dell’anniversario è impressa sulla schiena, sotto al colletto. Per il resto, tutto è esattamente uguale a vent’anni or sono. Una casacca in edición limitada già resa disponibile a tifosi e collezionisti da qualche settimana, e omaggiata al meglio con la vittoria 3-1 sull’Albacete davanti al pubblico amico.
Tuttavia, come già accaduto in casi similari degli anni passati (l’Atalanta è la prima che ci viene in mente), l’effetto vintage è stato parzialmente attutito dall’abbinamento ai moderni pantaloncini e calzettoni e, nel caso specifico del Real Saragoza, anche dall’apposizione degli odierni sponsor — i biancoblù sono peraltro tra coloro che, in questa stagione, hanno aperto le porte alle calze brandizzate. Un intento celebrativo in parte mutilato, ancora distante da quel misto di tradizione e rispetto che invece altrove, come nella patria del football (bussare in casa WBA), è invece da tempo la regola.
— Una stagione di anniversari —
D’altronde, c’è da dire che questa stagione è stata fin troppo ricca di ricorrenze in casa biancoblù. Due decenni addietro il Real Zaragoza scrisse sì per l’ultima volta il suo nome nell’albo d’oro continentale, ma tutto iniziò ben prima, esattamente mezzo secolo fa.
L’incipit degli anni ’60 fu il primo, grande, momento di gloria del club, quando una sopraggiunta prosperità economica permise la costruzione della Romareda e l’ingaggio di affermati giocatori: un gruppo che raggiunse l’apice nell’annata 1963-64, mettendo in bacheca i primi, importanti, trofei fatti propri dai Blanquillos.
Un anno, quel ’64, segnato da uno storico doblete col trionfo sull’Atlético di Madrid nell’allora Coppa del Generalísimo (l’odierna Coppa del Re, in una Spagna ancora fedele al Franchismo) e, soprattutto, con l’affermazione internazionale in Coppa delle Fiere, progenitrice della coppauefaeuropaleague, strappata ai detentori del Valencia — anche qui, corsi e ricorsi storici con la notte del gol del siglo — nella finalissima del Camp Nou.
Una squadra che per prima portò il nome di Saragozza fuori dai confini iberici, e dei calciatori da allora rimasti nella memoria collettiva, per sempre, come Los Magníficos. Proprio tale appellativo ha trovato quest’anno posto sulle moderne divise biancoblù, a sorreggere il tradizionale scudo societario.
Come delle coccarde appuntate al petto, quasi a trasmettere ai giocatori del terzo millennio tutta la forza di un passato tanto lontano ma, ciò nonostante, ancora così luminoso.
In definitiva, una stagione che ha visto il Real Zaragoza guardarsi indietro, ai suoi giorni migliori, confidando che anche una maglia — per quanto, all’apparenza, semplice insieme di tessuti e cuciture — possa far da viatico per riportare una squadra, una città, a toccare nuovamente i fasti di un tempo.
Vi piace l’approccio di Mercury nel celebrare il glorioso passato del Real Zaragoza?