Dopo aver parlato della prima volta assoluta di una maglia da calcio sponsorizzata (quella dell’Eintracht Braunschweig), riprendiamo oggi l’argomento trattandolo stavolta da un diverso punto di vista, ovvero raccontando della lunga serie di eventi che portarono all’arrivo degli sponsor nel panorama calcistico italiano.
Come abbiamo già ricordato la volta precedente, anche in Italia per lungo tempo questa disciplina sportiva è stata preservata dalle più disparate venalità economiche, nonostante altrove già da tempo si ricorresse all’aiuto e al supporto degli sponsor, come avveniva ad esempio nel campo del basket e del ciclismo.
La FIGC arriverà a togliere questo bando solo a cavallo degli anni settanta ed ottanta del secolo scorso, relativamente tardi rispetto a quanto era avvenuto nel resto del continente.
La pratica dell’abbinamento
A questo punto molti di voi si staranno chiedendo: e il Lanerossi Vicenza? Nella stagione 1953-1954 debuttò infatti sulle maglie del club biancorosso (all’epoca in Serie B) una piccola ‘R’, simbolo del Lanificio Lanerossi di Schio.
Tale fatto viene da molti accreditato come la prima sponsorizzazione nel mondo del calcio, addirittura antecedente di vent’anni a quella dell’Eintracht Braunschweig, ma è in realtà un errore, in quanto le cose stanno diversamente: non si trattò di sponsorizzazione, bensì di abbinamento.
Andiamo a spiegare la differenza: la sponsorizzazione è un’operazione mediante la quale, allo scopo di ricavarne pubblicità, un ente finanzia in maniera esterna delle attività di varia natura (sportive, culturali, di spettacolo o similari); l’abbinamento consiste invece nella fusione di due realtà societarie differenti – generalmente tra un’associazione sportiva e una ditta industriale – che vanno così a creare un nuovo soggetto economico (cosa che ne comporta anche l’affiancamento delle rispettive ragioni sociali). Questo è esattamente quanto avvenne nel caso del Vicenza, ovvero una vera e propria acquisizione di una squadra di calcio da parte di un’impresa.
Peraltro, non si trattò neanche del primo caso del genere: nei primi anni quaranta, la stessa Lanerossi aveva attuato la medesima operazione con le compagini dello Schio e del Piovene. Sempre nel vicentino, nel 1926 era nata all’interno dell’azienda tessile Marzotto la squadra calcistica del DAM Valdagno (Dopolavoro Aziendale Marzotto), poi trasformatasi nell’immediato secondo dopoguerra in Associazione Calcio Marzotto; nel campionato cadetto del 1953-1954 ebbe così luogo anche un particolare “derby della lana” tra i già citati Marzotto Valdagno e Lanerossi Vicenza.
Né possiamo dimenticare due abbinamenti sorti a Torino negli anni della seconda guerra mondiale, stavolta con intenti meno commerciali e più nobili: per far sì che le due formazioni cittadine potessero proseguire l’attività calcistica anche in mezzo alle difficoltà del conflitto, queste fecero confluire i propri giocatori nei gruppi sportivi in seno alle grandi aziende Cisitalia e Fiat, dando vita rispettivamente alla Juventus Cisitalia e al Torino Fiat (abbinamenti poi sciolti al termine della guerra). A posteriori, potrebbe lasciare interdetti vedere la squadra granata sfoggiare sul petto, come stemma, il nome della casa automobilistica degli Agnelli.
Questo tipo di espedienti ottennero un discreto successo negli anni cinquanta, quando in poco tempo sorsero legami come Talmone Torino, Simmenthal Monza, Ozo Mantova, Sarom Ravenna, Zenit Modena ed Elah Genova, tutti però destinati ad avere breve durata; solo il Lanerossi Vicenza, pur nella sua piccola realtà di provincia, riuscì a lasciare un profondo segno nella storia del calcio italiano, entrando nel cuore dei suoi appassionati che ancora oggi tifano “il Lane” piuttosto che “il Vicenza”!
A riprova di ciò, dalla stagione 2006-2007 il Gruppo Marzotto (proprietario del marchio Lanerossi) ha permesso gratuitamente al club vicentino l’utilizzo della storica ‘R’, che è così tornata a far bella mostra di sé sulle casacche biancorosse, dopo che per tanto tempo la tifoseria ne aveva chiesto il ripristino. Tornando a parlare di abbinamenti, visto il loro proliferare, questi furono banditi dalla Federcalcio alla fine del decennio: solo il Lanerossi poté mantenere la sua particolare denominazione, in virtù di una speciale concessione.
I primi tentativi di sponsorizzazione
Arrivarono gli anni settanta, in cui ebbero inizio le prime aperture verso gli sponsor. Dopo che nel 1974 era stato dapprima riconosciuto ai calciatori italiani il diritto allo sfruttamento della propria immagine a fini commerciali, nel 1978 la FIGC creò al suo interno una struttura ad hoc, la Promocalcio, dedicata alla gestione di marketing e diritti televisivi: tra le sue prime azioni, questa permise l’esposizione sulle maglie ai marchi dei fornitori tecnici. Nonostante la cosa possa sembrare al giorno d’oggi abbastanza marginale, all’epoca ebbe un eco di non poco conto. Nello stesso anno si mise in moto una catena di avvenimenti che, in poco tempo, portò le sponsorizzazioni anche nel calcio italiano.
Alla base di tutto ci fu un po’ d’ingegno e una buona dose di sfrontatezza. Iniziò il presidente dell’Udinese, Teofilo Sanson, patron dell’omonima azienda di gelati, che durante il campionato di Serie B 1978-1979 pensò bene di inserire sui pantaloncini della squadra friulana il logo della sua attività commerciale: i regolamenti federali si occupavano infatti delle maglie, ma nulla prescrivevano circa il resto della divisa da gioco; ovviamente la Federcalcio stoppò l’iniziativa dopo poche partite, ma ormai la strada era tracciata.
Pochi mesi più tardi, all’inizio della Coppa Italia 1979-1980, il Perugia di Franco D’Attoma presentò quella che può essere considerata la prima “vera” casacca sponsorizzata del calcio italiano: per finanziare l’ingaggio di Paolo Rossi, il presidente degli umbri si accordò col pastificio Ponte, il quale avrebbe visto esposto il suo marchio sulla maglia perugina in cambio di 400 milioni di lire. A questo punto, per aggirare il divieto federale vigente, venne creato di sana pianta un falso maglificio, la Ponte Sportswear, che ufficialmente figurava come fornitore tecnico!
Non ci volle molto alla FIGC per capire l’escamotage, ma nonostante multe, squalifiche e l’inevitabile rimozione del marchio pubblicitario dalle casacche, D’Attoma perseverò, inserendo il marchio Ponte su tute d’allenamento, giubbini prepartita, e un po’ ovunque all’interno dello Stadio Curi (perfino sul manto erboso, “inventando” di fatto quel particolare taglio d’erba che sarà poi reso famoso dalla Parmalat, allo Stadio Tardini di Parma, negli anni novanta).
Seguendo il percorso intrapreso dalla squadra biancorossa, nel corso della stessa annata il Cagliari e il Torino (in A) e il Genoa (in B) si accordarono a loro volta con alcuni sponsor (rispettivamente Alisarda, Cora e Seiko), cui garantirono visibilità sull’abbigliamento indossato dalle riserve e dai raccattapalle. La stagione successiva, l’Inter inserì il marchio di elettronica Inno-Hit sulle tute utilizzate per il riscaldamento prepartita (che per ovvi motivi pubblicitari iniziò ad essere svolto in campo e non più in palestra).
La liberalizzazione
Questa situazione divenne irreversibile, e alla vigilia del nuovo campionato la FIGC cedette, procedendo alla tanto attesa liberalizzazione: ai nastri di partenza della stagione 1981-1982, oltre 28 tra le formazioni di Serie A e B scesero in campo sfoggiando uno sponsor sul petto.
La prima stagione di Serie A “brandizzata” terminò con la vittoria della Juventus, ottenuta in volata sulla Fiorentina; quella bianconera divenne così la prima casacca sponsorizzata a fregiarsi del tricolore. Il club torinese sfoggiava sul petto il marchio di elettrodomestici Ariston: è curioso constatare come il nome dell’azienda, nella sua antica accezione greca, stia a significare “il migliore”, un concetto che ben si prestava ai neo campioni d’Italia.
Rimaniamo per un attimo sulla Serie A 1981-1982, per analizzare alcune particolari eccezioni verificatesi con la liberalizzazione. Partiamo dalla formazione arrivata alla piazza d’onore, la Fiorentina. Mentre la maggior parte delle compagini della massima serie si limitarono ad inserire gli sponsor, in maniera canonica, sul petto delle loro maglie, il club viola siglò quell’anno un particolare accordo col marchio d’abbigliamento J.D. Farrow’s, che così divenne sia sponsor che fornitore tecnico della squadra.
La Fiorentina propose quindi in questa stagione delle particolari divise viola con dettagli rossi, che vedevano lo sponsor inserito immediatamente sotto al colletto; nella parte frontale – dove di norma sarebbe dovuto essere presente il marchio pubblicitario – sfoggiava invece il rinnovato stemma societario, appena ridisegnato dalla nuova proprietà dei Pontello (il cosiddetto “giglio alabardato”, mai troppo amato dai tifosi fiorentini), che occupava la gran parte del petto.
Un caso a parte fu rappresentato dall’Udinese. Il club friulano era appena passato sotto la nuova gestione della Zanussi, che decise inizialmente di seguire una pratica simile a quella del vecchio abbinamento, inserendo sulle maglie bianconere della stagione 1981-1982 solamente una ‘Z’ rossa all’altezza del cuore, come richiamo all’azienda. Addirittura, nell’annata successiva la ‘Z’ venne integrata direttamente all’interno dello stemma del club, dentro un piccolo triangolo giallo.
Solamente col campionato 1983-1984 l’Udinese si allineerà al resto del panorama calcistico nazionale, raggiungendo un accordo per far comparire sulle sue casacche lo sponsor Agfa.
Termina qui questo lungo tuffo nel passato, alle origini delle sponsorizzazioni nel calcio italiano. Siete tra gli entusiasti o fra i detrattori?
Esiste forse una maglia sponsorizzata che, per i più vari motivi, vi è rimasta nel cuore?